Don Pasquale Di Mattia
Da Storia di Enna , di Paolo Vetri
La storia di Don Pasquale Di Mattia, parroco di San Giorgio,
e la soppressione del Tribunale dell'Inquisizione
come ci viene raccontata da Paolo Vetri.
Il venerdì santo del 1782 (27 marzo), tra gli evviva del popolo e gli applausi dei pensatori, dal vicerè Domenico Caracciolo, marchese di Villamarina, che volle presenziare quella cerimonia, si dava il colpo di grazia al feroce tribunale dell'inquisizione, detto per ironia il sant'uffizio, il quale, sebbene sotto l'influenza dei tempi mutati, restava come un simulacro ed un'ombra: pure il solo suo nome terrorizzava. In quel giorno memorabile, circondato lo Steri, antica residenza dei Chiaramonte, che per ambizione di governo e per sentire nazionale aveano rappresentato il principio della patria indipendenza, poscia da soggiorno reale ridotto sede principale di quel tenebroso magistrato, letto il decreto dell'abolizione dell'odioso e strano istituto, cancellati gli stemmi ed in ispecie la mano imbrandente la spada col derisorio motto «Deus iudicat causam tuam», si schiudevano le carceri e da quelle catacombe di viventi ne comparivano tre vecchie donne, rifiuto della specie umana, mentre poco prima, per ordine giunto da Napoli n'era uscito un uomo pallido e macilento, gettato in fondo di quei luridi sotterranei per invidia e rancori personali.
Era questo spettro dell'umanità il sacerdote Pasquale Di Mattia, parroco della pieve San Giorgio in Castrogiovanni. Egli, scomparso in una delle notti della seconda metà dell'agosto 1780, ricompariva tra i viventi per l'energico impulso dato dall'egregio avv. Francesco Benigno Tremoglie alla causa dell'umanità che si era fatta strada nelle corti di Europa. E' vezzo degli scrittori trattenersi solo della storia della capitale, persuasi che in quella si comprende tutta la storia della nazione; è vezzo pure di coloro che siedono alla somma delle cose, dirsi tra gli autori dei fatti compiuti, dei concetti che riscuotono la benedizione dei popoli; e per questo vezzo si tace di un fatto che conturbò una delle principali città del regno, e per questo vezzo, mentre il Caracciolo il vanto della scomparsa di quel mostro lo fa riflettere in se stesso, lo scrittore dei Diari palermitani ne riferisce tutta la lode al ministro Sambuca, suo compatriota.
Il Di Mattia, in fresca età, pei suoi talenti, pei costumi, pei suoi meriti morali, si guadagnava quel posto, si guadagnava l'affetto dei buoni parrocchiani, che trattava da padre, da vero sacerdote; ma in mezzo a questi vi era una donna facile ad ogni richiesta, la quale voleva ottenere l'assoluzione del suo peccato: dessa nel suo libidinoso mestiere era sfacciata e pubblica, dessa era persistente, per cui il buon pastore Di Mattia non poteva ammetterla al banchetto pasquale, se non dava segni di resipiscenza; e dessa, forse indettata, ritornava insistente, ed egli la concedeva sempre, ammonendola dolcemente. Allora si giudicò maturo il tempo per rovinarlo; allora coloro che l'odiavano pel posto che agognavano, per la sua popolarità e per le sue virtù, dalla frequenza di quella donna al confessionale trassero argomento, fabbricarono la calunnia, l'accusarono di sollecitazione: quell'essere impuro, capace di tutto, riconfermava; i commissari del terribile tribunale prestavano orecchio ad una bassa puttana che non abbisognava delle insinuazioni per secondare le altrui brame, ed il Di Mattia si privava della carica di pastore sacerdotale, gli si confiscavano i beni, si consegnava agli aguzzini, e di notte tempo spariva, ignorandosi se pur vivesse e dove.
Trascinato bruscamente, come un malfattore, in un carcere tetro e malsano, trattato villanamente, si macerava, ma si confortava nel sentirsi puro; soffriva immensamente, e non aveva mezzi ad esporre i suoi patimenti, la sua innocenza; gli mancava la carta. Come nel pubblico come negli stessi affiliati di quella iniqua istituzione era entrato il presagio della sua imminente fine, così penetrava nell'animo di un agozzino custode la pietà pel Di Mattia, e lo forniva di un foglio di carta, ricevuto come l'acqua nel deserto, come un favore provvidenziale, perchè ancora difettava di penna ed inchiostro, con una scheggia di canna ridotta acuminata, vi scrivea la sua innocenza ed i suoi patimenti col sangue delle proprie vene, che si apriva da se medesimo; e quei caratteri infocati ebbero la potenza di abbattere un tribunale che, per più secoli innalzato sui roghi, si sosteneva ancora per soffocare lo spirito, per con l'umanità.
In quell'epoca si trovava in Palermo il signor Francesco Benigno Tremoglie, nato in Castrogiovanni il 20 ottobre 1732 dal signor Vincenzo ed Anna Maria Pregaddio, giureconsulto, uomo di vasta mente, fecondo oratore, latinista, poeta, filosofo, conoscitore del cuore umano. in Castrogiovanni occupò le cattedre di eloquenza e filosofia, vi lesse, come in altrove, poesie, sermoni, elogi funebri, che rimasero inediti; in Palermo si apriva luminosamente la strada fra l’immenso e scelto foro ed in Catania, ove moriva, in quella grande università, saliva per concorso la cattedra di eloquenza, e per la stia predilezione dettava giurisprudenza. Scrisse molto, ma di lui ci sopravanzano, pubblicate in puro latino con un genio sintetico, un'operetta che porta per titolo Delineatio historiae civitatis Sìciliae, un ristretto del rito civile, e le Pandette del Voet con delle sennate e dotte illustrazioni ed un preliminare stupendo discorso che lo fecero riconoscere come il più profondo giureconsulto sicchè in Catania lo dissero un portento della natura.
Il magistrato municipale di Castrogiovanni, dolente della sua lontananza, per farlo rientrare in patria, gli comprava e faceva dono di una casa ben degna, vicina al collegio degli studi, e che in oggi si possiede dal signor Marcello Castro. Perchè l'archivio notarile, per come si è detto, venne involato, e perchè s'ignora il notaro che riceveva quell'atto, che fa onore al magistrato del tempo, non mi è dato il piacere indicarne la data ed i sensi; ma della sua esistenza me ne fanno fede i suoi eredi
Per mezzo del medesimo pietoso agozzino, quel foglio scritto col sangue, pervenuto nelle mani del Tremoglie, non tardò questi, per amor del suo concittadino, dell'umanità, salpare per Napoli, presentarsi in pieno consiglio di stato, stigmatizzare colla sua maschia eloquenza l'orrido e mostruoso istituto del sant'uffizio, dimostrarne tutta la enormezza, e con quel foglio alla mano, che operava quale un talismano, strappare dal re e dalla regina una frase di dolore, una parola di meraviglia per la tolleranza in Sicilia di quel tribunale, e da tutto il ministero la promessa di quel decreto che non tardava a comparire, il quale ne ordinava la soppressione, e che dal Caracciolo, per renderne più solenne la funzione, si eseguiva il venerdì santo.
Giubilarono i cittadini nel rivedere quel virtuoso sacerdote ingiustamente perseguitato, e l'accoglievano con espansive dimostrazioni di affetto; ma la loro gioia veniva avvelenala nell'apprendere che dovea soffrire ancora: chè quel tribunale, da gran tempo condannato dalla opinione pubblica, lasciava le sue tremende tracce. Il Di Mattia, ridato ai viventi, non si rimetteva nelle sue funzioni sacerdotali; gli era d'uopo partire per Roma onde giustificarsi; e siccome il Caracciolo sconsigliatamente avea fatto bruciare tutti i processi, s'istruì di nuovo, la luce fu fatta; e dalla corte romana si proclamò la sua innocenza. Il Di Mattia, riabilitato, ritornava trionfante; nel 25 giugno del 1786 rendeva grazie al bambino Gesù , e la calunnia interamente conquisa si nascondeva vergognosa nel cupo seno dei tristi.
Da quell'epoca la festa del bambino Gesù, istituita dal Di Mattia, si solennizza per le oblazioni dei fedeli parrocchiani, immemori e grati ancora al loro pastore, e quasi sempre in quella ricorrenza si ripetono i patimenti sofferti dal pio istruttore. Il Di Mattia moriva di anni 63 il 19 agosto 1803 e l'avvocato signor Andrea Tremoglíe, uomo non degenere dell'avo, nella sua parrocchia, vi leggeva l'elogio funebre, nel quale, perchè dovea fare spiccare il Di Mattia, con modestia attribuisce a lui tutta la lode, e solo per incidenza vi fa travedere quanta parte vi ebbe il suo avo Francesco Benigno. Siccome conferma lo svolgimento dei fatti, come da me posti, detto elogio essendo inedito, ne riporto quel brano che vi si riferisce: «L'uomo virtuoso, l'innocente Di Mattia, trattato vilmente, non si dà adito alle sue discolpe. Un nostro cittadino, mio avo, intraprende la sua difesa: ei fa presente al regnante la sua innocenza e la calunnia per opprimerlo. Quel principe accoglie la di lui ragioni; egli è liberato dalle ingiustizie che per lungo tempo avea sofferto» e, conchiude l'oratore: «Non meritava egli la nostra riconoscenza per avere liberato l'isola da quel crudele magistrato?».
Per riordinare le epoche, ho dovuto riandare i registri parrocchiali, e dai medesimi ho rilevato che l'ultimo atto a nome del Di Mattia porta la data del 16 agosto 1780, mentre il primo dell'economo, che ne assumea le funzioni, quella del 20 del successivo settembre; così il primo atto dietro la sua riabilitazione porta la data del 29 giugno 1786; laonde, avendo lui celebrato la prima festa pel bambino Gesù il 25 di quell'anno, fu di conseguenza il suo ritorno immediatamente prima di quel giorno.