Giuseppe Amato
Houssein e il Monte dei tre Valli
fiaba di Giuseppe Maria Amato di Pietragliata
post inserito il 26 ottobre 2013, editing F.Emma.
Fiaba pubblicata per il Rocca di Cerere European Geopark nel 2008.
Disegni adattati da "Scene della biografia di Giorgio Maniakes", Madrid Biglioteca Nazionale.
"Quando gli arabi vennero in Sicilia, dopo lunghi anni di guerre..."
Quando gli arabi vennero in Sicilia, dopo lunghi anni di guerre, videro giungere il giorno della pace e si dedicarono, finalmente, alle attività dell’intelletto. Tra essi, posate le scimitarre, comparvero poeti, scrittori, pittori e calligrafi, chimici ma anche geografi. Essi erano uomini abituati a viaggiare per mare e per deserto, lì dove le stelle ed il sole sono segni forti dell’orientarsi, dove necessaria è l’intelligenza. L’isola che avevano conquistata, Siqilliyah, la chiamavano, era poi piccola ma bellissima, in essa alle città dense di antiche storie e di genti variopinte, si alternavamo montagne piene di boschi, fiumi imperlati dalla preziosa argilla e dall’oro e persino il grandissimo Djebel al Nahr, il monte del fuoco, massima montagna di Siqilliyah, Djebal al-burkan o Djebal Atma Siqilliyah o, addirittura Djebel Utlamat., il Monte dei monti.
Al centro però, proprio dinanzi le mura della fortezza cristiana che maggiormente avevano faticato a prendere e che oggi abitavano in gran numero, si innalzava un monte scuro, fitto di alberi frondosi anche con le nevi, impervio e svettante.
"L’Emiro riunì allora tutti gli uomini della città e minacciò di condannarli alle peggiori pene se non si fosse posto rimedio alla mancanza. Fu così che il giovane garzone Houssein...si propose per l’impresa."
Tra le genti cristiane esso era il Monte dell’aere, sferzato dal vento e quasi aereo. Si diceva fosse magico, in esso avevano vissuto popoli dal perso nome, se ne vedevano occhieggiare le strane tombe e, secondo alcuni, se ne udivano ancora le parole ed i passi là sulla cima rocciosa. Non tardò tempo che da Palermo venne l’ordine di salirvi e di spiegare all’Emiro ogni particolare della fatata montagna. Gli scienziati fecero allora a gara ad evitare l’avventura, chi sosteneva che la sua scienza nulla avrebbe chiarito, chi, invece, era troppo anziano e chi preferiva osservare le stelle e traguardare la cima con l’alidada dalle alte torri della cittadella ennese.
Solo un giovane garzone, per tutti Houssein, appassionato di geografia, non dormiva la notte per la smania di proporsi e per il timore di essere deriso e considerato inadatto alla grande impresa.
Un giorno, non molto dopo l’editto, l’Emiro si recò ad Enna ed entrò trionfalmente proprio dalla porta il cui arco inquadrava l’alto e scuro monte magico. Il grande capo era convinto di trovare già gli scritti, le relazioni, i racconti ed i reperti della spedizione, e si infuriò enormemente scoprendo che quelli che erano stati la spada dell’Islam avevano accampato scuse per non conquistare una simile vittoria! L’Emiro riunì allora tutti gli uomini della città e minacciò di condannarli alle peggiori pene se non si fosse posto rimedio alla mancanza. Fu così che il giovane garzone Houssein, preso il coraggio a piene mani, si propose per l’impresa, non più deriso ma anzi ringraziato da chi ne prevedeva la scomparsa ma si rallegrava della scelta.
"L’Emiro dotò il giovane di un mulo, di viveri per due giorni, di sale ed acqua, di una splendida scimitarra.."
L’Emiro dotò il giovane di un mulo, di viveri per due giorni, di sale ed acqua, di una splendida scimitarra con forgiate in niello le prime parole del Sacro Libro, e di una strana novità proveniente dalla lontanissima Cina, un fuoco greco capace di fare fortissime luci e incredibili boati se solo posto vicino ad una fiamma.
Houssein quella notte non dormì, steso sulla sua “ticchiena” alla luce di una piccola lampada ad olio, si divideva tra la paura dell’impresa e l’eccitazione della partenza. Fece luce prestissimo ed alle prime parole del muezzin, gridate e risonanti tra i mille vicoli della città pronti a popolarsi di gente, Houssein era già in cammino con il suo mulo e con i pochi e strani arnesi della conquista. Il giovane si incamminò prima tra le strette vie della città sino alla porta arcuata, poi giù nella valle profonda per iniziare infine una lunga salita verso la scura cima. Il primo giorno egli incontrò solo contadini e pastori, le greggi, i cani, ma già la mattina del secondo, proprio alla base del monte, egli vide le prime fiere. Nella penombra dell’aurora un veloce gatto selvatico, poi un maestoso cervo con i palchi infiniti ed infine, tra il folto dei lecci, gli occhi gialli e guardinghi di uno splendido lupo. In cielo giravano le poiane e i falchi mentre tra le basse erbe sibilavano serpi. Giunto al fitto del bosco il giovane scese dal mulo oramai stanco ed iniziò la durissima salita a tentoni, senza vedere strada alcuna.
"Così la città dava forza e ragione alle proprie paure e abbandonava il giovane alle peggiori sorti..."
Ad Enna, intanto, tra le tende dei mercati e nei piccoli cortili e bagli si rincorrevano le voci sulla sorte dell’eroe. Secondo alcuni pastori era stato visto precipitare in un infinito dirupo, secondo altri l’aveva annientato una folgore a ciel sereno, secondo altri ancora era finito preda di un immenso branco di lupi. Così la città dava forza e ragione alle proprie paure e abbandonava il giovane alle peggiori sorti. Il terzo mattino Houssein era oramai stremato dalle forze ma si era abituato all’oscurità del bosco ed alla vicinanza delle fiere, certo, tutte selvatiche ma contente di condividere con tal coraggio i propri spazi. Esse quasi avrebbero voluto prender per mano l’eroe e portarlo in cima, al sole.
Houssein percepiva nelle loro fugaci apparizioni questo sentimento di vicinanza, molti di questi animali avrebbero potuto morderlo, ferirlo, spaventarlo, altri avrebbero dovuto temerlo come è giusto che le creature dei boschi temano l’uomo, ma invece ad ogni incontro si instaurava un silente colloquio. Gli occhi neri e profondi di Houssein, la cui curiosità vinceva ogni paura, si immergevano in quelli lincei delle fiere. Taciti accordi si stringevano tra le radici contorte delle mille querce. Forse intuendo questa volontà il coraggioso pregò infine un’aquila di dargli un segno, di indicargli la strada. Houssein, guidato dalle spirali aeree del maestoso volatile, salì a zig zag tra i lecci sino a veder aprirsi una radura chiara e rocciosa proprio ai suoi piedi.
"Era la antica città delle perse genti senza nome, Houssein era giunto al tremendo luogo delle leggende."
Era la antica città delle perse genti senza nome, Houssein era giunto al tremendo luogo delle leggende. Per terra giacevano resti terrorizzanti di antiche statue, braccia, teste e torsi mutili e muti, tegole e vasellame tutto elegantissimo e raffinato ma tutto segnato da un violento abbandono e dal fuoco. Pietre, rocce, muri, i moncherini delle statue erano disposti attorno ad Hussein quasi a volerlo aggredire. Egli, ancora ragazzo, andò subito alle tante, paurose storie che sua nonna gli raccontava da bimbo, marinai rapiti da immensi volatili, caverne aprentesi al sol suono di una parola, geni rintanati nelle otri e nelle anfore… il cuore gli batteva in petto all’impazzata.
Egli avrebbe voluto scappare ma fu allora che l’aquila, scesa dal cielo e posatasi dinanzi lui disse con voce non sonora: fermati coraggioso giovane, qui da anni ed anni i tuoi simili non giungono più, era questa una antica e forte città, luogo di delizie e di sapienza, invidiata e temuta da ogni altro centro attorno. Giunse poi il momento della fine, del fuoco, dei pianti e delle grida e da allora il popolo verde è tornato tra le case. Oggi Tu, vedi cosa è rimasto e potresti tradire il segreto di questi luoghi riportando qui la rumorosa vita degli uomini”.
L’aquila era decisa ma preoccupata, sapeva di dover convincere un essere da lei cosi diverso. “ora ti propongo un patto – continuò - noi popolo verde ti facciamo dono del segreto del monte, quello che rendeva forte la vecchia città, ma tu, in cambio, dovrai vigilare affinché nessuno salga qui se non in pace”. Il giovane, stordito da quegli avvenimenti, accettò lo strano patto ed a quel punto l’aquila indicò la breve via per la cima: “da qui – disse – potrai vedere la forma dell’isola, essa è bella e vasta, un triangolo proteso verso il paese dove dorme il sole, da qui si possono osservare gli accadimenti, sentire le voci del mondo, governare le strade. Tu potrai dirlo all’Emiro ma non potrai consentire che alcuno salga toccando un solo albero!”.
Hussein era estasiato, abituato a guardare dall’alto delle torri e dei minareti ennesi non poteva immaginare che esistesse panorama ancor più grande, ma ciò che lo colpiva di più era la chiara consapevolezza del controllo della Sicilia. Dopo qualche tempo, forse un’ora di silenzioso osservare, egli ricordò il suo compito primario: avvertire l’Emiro. Accese allora un piccolo fuoco di pece ed ad esso avvicinò l’ordigno cinese, subito un velocissimo schizzo di scintilla partì per il cielo che già dava al blu e dopo un poco un crepitio si unì ad una lucentissima stella accesa nell’aria.
“Maestà – disse subito Hussein - .. ho conquistato la cima, ma essa è inutile all’uso umano tranne che a tracciare una mappa della Tua grande isola. Io l’ho fatta, eccola”. Cosi dicendo svolse il rotolo e lo mostrò agli attoniti cortigiani.
Ad Enna le guardie diedero l’allarme, il messo era arrivato in cima!
Le strade della città passarono subito la notizia, di porta in porta, dinanzi le moschee ma anche giù nella murata Giudecca e tra le chiese dei cristiani, negli hammam e nelle buie botteghe artigiane le parole erano solo: “Hussein ce l’ha fatta, Hussein ha conquistato l’oscuro monte!” L’Emiro, fiero del giovane, si perse a guardare nel cielo rosato del tramonto quella svettante cima che oggi appariva più sua e dedicò una preghiera al Misericordioso che aveva protetto l’ardito Hussein.
L’indomani, di buon ora, un drappello di guardie a cavallo partì al galoppo per le contrade alte. I militari della scelta guardia dell’Emiro, erano pronti a imbandierare la nuova conquista, ma trovarono il giovane con il mulo ai confini del bosco. Houssein aveva in mano un grande rotolo di pergamena e nel viso la forza di chi aveva capito il mondo.
Il drappello, affidato il mulo ad un contadino, fece salire Hussein a cavallo e con una veloce cavalcata lo accompagnò in città.
Accolto da due ali di folla sin da sotto le alte mura, accompagnato da grida di giubilo e dallo sventolio delle mille bandiere verdi e nere issate su ogni tetto, Hussein giunse infine al castello dell’Emiro. L’eccitazione dell’incontro tolse ad Hussein stanchezza e fame, fermatosi solo a pregare con il viso verso i luoghi dello Scirocco il giovane chiese di essere introdotto alla sala del trono. L’Emiro, dal canto suo, non stava nella pelle, sapeva che una nuova conquista, questa non più dovuta alle scimitarre, veniva a inanellarsi alla lunga serie delle avventure sin qui vissute, così Houssein trovò il grand’uomo in piedi tra i tappeti ed i magnifici arredi della sala. “Maestà – disse subito Hussein - ho portato a termine il compito assegnatomi, ho conquistato la cima, ma essa è inutile all’uso umano tranne che a tracciare una mappa della Tua grande isola. Io l’ho fatta, eccola”. Cosi dicendo svolse il rotolo e lo mostrò agli attoniti cortigiani.
"In esso si vedeva un grande triangolo puntato ad occidente, al Magreb, diviso in tre parti quasi uguali, tre regioni siciliane ma diverse, i tre Valli."
In esso si vedeva un grande triangolo puntato ad occidente, al Magreb, diviso in tre parti quasi uguali, tre regioni siciliane ma diverse, i tre Valli.
Egli disse allora: “se, o grande Emiro, saprai governare queste tre uguali diversità sarai sovrano dell’isola e, guardando con l’alidada la cima dell’alto monte in essa vedrai un segnale chiaro del punto in cui le tre uguali diversità si congiungono nel meglio che il mondo ha dato: la natura. Se mai sbaglierai in questo compito, il segnale svanirà e il tuo tempo da capo sarà finito”. Il sovrano incredulo guardò la carta, il giovane e pensò alla dorata alidada posta sul muro della torre più alta dell’alto castello sull’alto monte.
Chiese allora ad Hussein di salire con lui sugli spalti e, seguito da tutti i cortigiani, si precipitò sui ripidi gradini. Giunto sulla sommità della altissima torre prese lo strumento e lo girò verso la scura cima e… vide un pilastro bianco lucente, con una sola parola incisa, il nome dei nomi, brillare in oro sul marmo.
In quel momento una gigantesca aquila passò sulla torre e rimase per qualche attimo ferma a fissare il gruppo. Tra i cortigiani passò un brivido di paura e ammirazione ma Houssein sorrise al maestoso animale che subito si allontanò planando verso settentrione. Il giovane Houssein fu nominato subito geografo di corte e la Sicilia, una ma diversa, venne governata con saggezza per anni senza che un solo albero dello scuro monte venisse giù.