La battaglia alla Falconara
Storia di Enna
1 dicembre 1299
alla Falconara,
cronaca di una battaglia
Sabato 2 Dicembre 2017 si è tenuto presso la Sala Cerere di Palazzo Chiaramonte il convegno dal titolo “1 Dicembre 1299: la battaglia della Falconara ed il Ruolo di Castrogiovanni nella guerra del Vespro” organizzato dalla Compagnia Arcieri del Castello di Enna, con il patrocinio del Comune di Enna.
L’incontro ha visto come relatori il dott. Giuseppe Maria Amato ed il dott. Federico Emma, che hanno approfondito una delle pagine più salienti della storia siciliana e, soprattutto, ennese. L’evento, fortemente voluto dalla Compagnia Arcieri del Castello di Enna, coordinato e moderato dal Vice Presidente della stessa, dott. Gaetano Campisi, ha posto in evidenza non solo il ruolo di Enna nella lotta del Vespro ma, altresì, quello dei Fanti Ennesi durante la famosa battaglia della Falconara, che vide per primi i cittadini ennesi, allora cittadini di Castrogiovanni, seguire il loro re Federico in battaglia. Così come evidenziato dal Presidente della Compagnia, sig. Sebastiano Schillaci, occorre valorizzare il peso assunto dalla città Enna nelle pagine storiche non solo siciliane ma europee. Questo post riassume l'intervento di Federico Emma sulla Battaglia della Falconara.
La Battaglia della Falconara fu combattuta tra l'esercito siciliano, guidato da Federico III re di Sicilia e l'esercito angioino guidato da Filippo, figlio di Carlo II re di Napoli, nella piana della Falconara, situata tra Trapani e Marsala, il 1 dicembre del 1299.
La battaglia alla Falconara avvenne in uno dei momenti più critici della Guerra tra Napoli e Sicilia. Michele Amari afferma che si tratta della “più grossa battaglia che si combattesse a campo aperto in tutta la guerra del vespro.” Il giornalista di Repubblica Salvatore Falzone, in un articolo del 2009, la definì: ”una delle dieci battaglie che cambiarono il volto e la storia della Sicilia”.
Proprio in questa importante battaglia combattuta per la sopravvivenza del Regno di Sicilia, come riportano gli storici nelle loro cronache, da Nicolò Speciale a Michele Amari, la città di Castrogiovanni, ebbe un ruolo fondamentale per la partecipazione dei suoi fanti alla battaglia. Gli ennesi ebbero un ruolo importante, determinante, costituendo uno dei fronti dello schieramento di Federico.
I Vespri siciliani
L’insurrezione siciliana del 1282 contro la “Mala Segnoria” angioina, che aveva preso possesso dell’Isola nel 1266, aveva dato avvio alla “Guerra del Vespro” fra Sicilia e Napoli. La guerra si concluse novanta anni dopo, il 20 agosto 1372, con il Trattato di Avignone, firmato da Giovanna d'Angiò e Federico IV d'Aragona con l'assenso di Papa Gregorio XI, con il riconoscimento formale dei due regni, di Sicilia e di Napoli.
La "Guerra del Vespro" fu un evento cruciale per l'evolversi della storia d'Italia, Dante Alighieri, nella sua maggiore opera "La Divina Commedia" nel Canto VIII del Paradiso, nei versetti dedicati all'incontro con Carlo Martello, al versetto 73, esprime un giudizio sulla dominazione angioina e sintetizza la rivolta:
Alla morte di Federico II di Svevia, avvenuta a Castel Fiorentino in Puglia il 13 dicembre 1250, fecero seguito in Sicilia quindici anni di lotte interne tra le famiglie più influenti dell’isola.
La Chiesa romana decise di concedere la Sicilia a Carlo d’Angiò, fratello del re di Francia Luigi IX. Carlo lasciò la Francia nel 1265 e sconfisse Manfredi, figlio di Federico II, l’anno successivo, a Benevento. Ha così inizio il periodo angioino dell’isola di Sicilia, che durerà dal 1266 al 1282.
Le esose imposte e la mancanza di rispetto verso i sentimenti locali scatenarono la ribellione collettiva nel 1282. L’opposizione al regime di Carlo d’Angiò assunse infatti proporzioni sempre maggiori a causa delle pretese di questo. Secondo la tradizione, la scintilla che infiammò la rivolta fu la reazione al gesto di un soldato dell'esercito angioino, tale Drouet, che si era rivolto in maniera irriguardosa ad una giovane donna accompagnata dal consorte con la scusa di ricercarle armi nascoste sotto le vesti. La reazione dello sposo, a difesa della nobildonna, diede proprio il via ad una insurrezione generale della città, scatenando una vera e propria “caccia ai francesi”. In poco tempo, stando a quello che le fonti cronachistiche tramandano, la rivolta si allargò in tutta l’isola.
Francesco Hayez - i Vespri siciliani
Con il proseguire della rivolta il baronato siciliano offrì la corona a re Pietro III d'Aragona, marito di Costanza, figlia di Manfredi e unica discendente della dinastia sveva. Il Re aragonese sbarcò a Trapani il 30 agosto 1282, e fu proclamato re a Palermo il 4 settembre.
Pietro si impegnò a non unire le corone di Aragona e Sicilia e così il 2 febbraio 1286 Giacomo, figlio di Pietro re d’Aragona, ricevette in una Palermo in festa, la corona di re di Sicilia. Nel 1291, morendo Pietro, Giacomo diventa re d’Aragona e svende la Sicilia, in cambio della Corsica e della Sardegna, agli Angioini, già cacciati dai Siciliani con la Guerra del Vespro.
Il Parlamento siciliano proclama suo re Federico, fratello minore di Giacomo, figlio di Pietro e di Costanza Sveva. L’incoronazione di Federico, che volle prendere il nome di Federico III, avvenne nel Duomo di Palermo il 25 marzo del 1296, giorno di Pasqua. E’grande festa per i siciliani, ed in effetti Federico, giovane d’anni, è maturo di senno ed erede di tutte le virtù dell’avo Federico II.
La Battaglia alla Falconara
ANTEFATTO
La situazione dell’isola nel 1299
In occasione delle ricorrenza della Pasqua, il 25 marzo 1296 il ventiduenne Federico veniva incoronato re di Sicilia. Già nel settembre del 1297 Giacomo II, re D’Aragona e fratello di Federico, guidava in persona, con Ruggero Loria e Roberto d’Angiò, la campagna militare nella parte orientale dell’isola. Il deciso tentativo d’invasione fruttò alla coalizione la conquista di importanti centri quali Patti, Milazzo, Buscemi, Sortino, Buccheri, Vizzini, la resa di Pietraperzia, Naso e Capo d’Orlando e la consegna di Paternò. Gli angioini arrivarono fino ad Aidone difesa da Giovenco degli Uberti che si arrese, mentre Piazza Armerina fu validamente difesa da Guglielmo Calcerando e Palmiero Abate. Attraversato il campo nemico con sessanta cavalieri, i due condottieri si rinserrarono nella città rafforzandone il coraggio, tanto che i cittadini di Piazza, alle proposte di resa, risposero che già da tempo avevano fermato i loro cuori sul proposito di morire piuttosto che arrendersi. Roberto d’Angiò dopo avere perso altri uomini levò l’assedio e tornò a Paternò.
Gli scontri si trasferirono subito dopo sul mare, dapprima dinnanzi a Messina, a favore dei siciliani, poi, il 4 luglio del 1299, nelle acque di Capo d’Orlando il Loria sbaragliava la flotta federiciana condotta da Corrado Doria, ammiraglio del Regno.
Federico stesso, presente allo scontro, a stento riuscì a mettersi in salvo con solo diciassette galee.
In seguito a questo scontro Giacomo II fece ritorno in Aragona, lasciando agli angioini il compito di continuare la guerra contro il fratello. Veniva quindi presa Catania, per il tradimento di Virgilio Scordia, che diventava una delle roccaforti angioine.
Il Mountaner commenta: “La storia e feconda di questi ammaestramenti, e nulladimeno par che gli uomini non facciano senno! Valore, tradimenti, slealtà, resistenze disperate, patti rinnegati offrì questa guerra nefanda; trenta città furono in mano degli Angioini, niuna, se ne togli Chiaramonte, fu conquistata onoratamente colle armi!"
In questa situazione Federico, lasciati Nicola e Damiano Palizzi a Messina, il 2 ottobre si riduce ad Castrogiovanni, commenta Paolo Vetri:
“ Castrogiovanni città fortissima sul monte. Quivi non dominava l’elemento feudale, instabile, ambizioso sempre e non mai sazio; quivi era ancor sentita la religione di Cerere; figura della civiltà, dea che respingeva lo spergiuro e il delitto , quivi era innato quel sereno animo dei suoi antichi Sicani che furono i primi a ripopolarla; e da quivi Federico e i Siciliani seppero rivalersi del glorioso disastro di Capo d’Orlando con la splendida giornata della Falconara”
(Nel disegno Il Re Federico nella città di Castrogiovanni, dal manoscritto di Padre Giovanni cappuccino)
Le fonti
La “magna strages de gente regis Karuli in provincia Scicilie” avvenuta il primo dicembre del 1299 è raccontata da Nicolò Speciale che assieme al Muntaner, ci fornisce dati importanti per ricostruire l’episodio in modo chiaro. A queste fonti bisogna aggiungere la lettera di Carlo II al cugino Filippo IV di Francia, il corriere inviato da Federico III a Palermo subito dopo la vittoria, ed altre cronache che, come tessere di un mosaico, ci permettono di ricostruire un’immagine convincente della battaglia.
Lo schema tattico adottato, i personaggi che presero parte allo scontro, l’evolversi della situazione man mano che si combatteva, sono tutti dettagli che ci sono pervenuti. Qualche difficoltà si ha nella stima dei guerrieri che realmente furono messi in campo. Le cifre infatti sono spesso esagerate per motivi propagandistici, in quanto le fonti sono per lo più legate ai vari contendenti.
La cronaca di Giovanni Villani definisce correttamente la quantità di galee e di cavalieri impiegata dagli angioini per raggiungere la Sicilia, parla dell’assedio subito da Trapani e colloca la battaglia nel primo giorno di dicembre. Tuttavia puntualizza qualcosa che le altre cronache non fanno. Viene difatti affermato che Federico III e i suoi uomini “stavano in su 'l monte di Trapali, veggendo il male reggimento del detto prenze e di sua gente, a loro posta scesono del detto monte.” Il cronista si riferisce al Monte San Giuliano, l’odierna Erice, che sovrasta la città di Trapani. Da lì deve certamente essere sceso Federico III prima di scontrarsi con l’esercito angioino. Giunti nei pressi di Trapani, dopo un lungo viaggio da Palermo, l’esercito aveva sicuramente bisogno di viveri e riposo. Queste esigenze non possono che essere state soddisfatte sulla vetta del monte. Il sito dello scontro tuttavia non è a valle, ma in una pianura denominata Falconara (o Falconaria), distante otto miglia da Trapani, dieci da Marsala, due o tre dal mare.
Verso la battaglia
Carlo II d’Angiò inviò il figlio Filippo, principe di Taranto, in Sicilia. La spedizione, allestita dopo la richiesta di un altro suo figlio, Roberto duca di Calabria, secondo il consiglio di Ruggero di Lauria, era costituita da quaranta galee, oltre alle navi da carico. Lì, assieme a Filippo di Taranto, furono imbarcati seicento cavalieri e circa mille fanti per lo più napoletani.
Il legato del principe per la marineria era Pietro Salvacossa, mentre legati per le operazioni terrestri furono nominati il francese Brolio de Bonzi ed il napoletano Ruggero Sanseverino, conte di Marsico.
Secondo quanto afferma il Muntaner nella sua cronaca (redatta negli anni compresi tra il 1325 e il 1332) la flotta era diretta verso la Sicilia orientale. Questa strategia era stata adottata per fare in modo che l’esercito angioino si unisse a quello di Roberto, che stazionava a Catania. Vinto però dalla voglia di dimostrare a quanti erano imbarcati con lui che avrebbe saputo e potuto sconfiggere il suo avversario da solo, il principe si diresse nel trapanese, andando così contro quello che gli era stato ordinato da Carlo. La motivazione del gesto è quindi da attribuire esclusivamente alla tracotanza del principe.
In realtà, la fantasiosa e romanzesca conversazione che il principe di Taranto ebbe con i suoi consiglieri non è confermata dalle altre fonti. Queste infatti parlano di una già programmata tattica che mirava a portare la guerra anche nella Val di Mazara, fino ad allora esclusa dai combattimenti, e quindi ad annullare questo potenziale vantaggio per Federico d’Aragona. Inoltre, l’idea di rinchiudere a tenaglia, da est e da ovest, il re di Sicilia, che si trovava a Castrogiovanni, dovette certamente essere allettante per gli angioini, i quali speravano di chiudere il conflitto nel minor tempo possibile. Debbono essere stati esclusivamente questi i moventi che hanno spinto la flotta a dirigersi a Trapani. Ciò ci è confermato dalla già citata lettera che Carlo II invia a suo cugino Filippo il Bello per chiedere “aucune quantite de genz d’armes” in seguito alla sconfitta.
Papa Bonifacio VIII, conoscendo lo scoraggiamento di Carlo per essere stato abbandonato da suo genero Giacomo II d’Aragona e sapendo che le forze napoletane erano insufficienti per sconfiggere l’avversario, aveva posto il suo veto alla spedizione. Nonostante il pontefice arrivasse a minacciare, tramite l’arcivescovo di Napoli, di scomunica i napoletani, la flotta prese il largo ai primi di novembre del 1299.
Sbarcati a capo Lilibeo gli angioini si diressero verso Trapani, la quale venne “obsessam per mare et per terram.” La notizia raggiunse Federico a Castrogiovanni e fu così convocato immediatamente un consiglio di guerra.
Il Consiglio di guerra prima della battaglia
Come raccontato da Michele Amari nel libro “La guerra del vespro siciliano, o un periodo delle Istorie siciliane del secolo XIII”, il consiglio di Guerra venne tenuto ad Enna (presso il Palatium del castello di Lombardia?).
Federico saputo che i nemici sbarcati a Capo Lilibeo, depredavano il paese e si accingevano ad assediare Trapani convocò il Consiglio di guerra. Secondo quanto riportato dallo Speciale, Federico fu il primo a prendere la parola dicendo che avrebbe condotto il suo esercito contro il nemico stanziatosi nella Val di Mazara. Era fieramente turbato, e consultava i suoi capitani su cosa fare.
A suggerire prudenza fu Blasco Alagona. Questi si offrì di condurre le milizie al posto del re, che avrebbe dovuto rimanere ad Enna per opporsi alle forze nemiche che stazionavano in Val di Noto.
Riferisce Michele Amari:”Blasco Alagona, per amore alla persona del re, o invidiosa cupidigia di gloria, voleva andar egli solo; dipingeva i pericoli: Roberto alle spalle, vicino e forte; Filippo con la flotta, da potervi rimontare a sua posta, e differir tanto la battaglia, che giugnesse il fratello, e cogliesserli in mezzo; non lasci il re questa inespugnabile Castrogiovanni, dia a lui qualche schiera, per accostarsi al nemico novello, tirarlo a giornata con mostra di poche forze ; e giurava che o presenterebbegli le bandiere angioine, o rimarrebbe sul campo.
"A questo parlare niun disse contro. Sedea su i gradi del soglio, a piè di Federigo, un Sancio Scada, nè bel dicitore, nè tenuto savio; ondechè non atteso da niuno rincantucciato stavasi ad ascoltare e guardar gli altri, quando il re, fattosi a interrogar per ordine i consiglieri, sbadato, a lui primo si volse. E costui, scotendo il capo, maninconoso e veemente prorompe :
« Stolto partito è questo, o re, che senza la tua persona si muova contro Filippo. Qual de tuoi padri, dimmi, avrebbe unque domato genti e reami, se tra il più folto del nemici, se alla testa de' suoi cavalieri, non combatteva egli primo. Nel mio petto io sento, ch' innanzi a te grandi cose ardirei, e te lontano il braccio cadrebbe. E Blasco or vuole che la Sicilia tutta, volta a risguardare a te solo, te vegga come codardo schivar la battaglia! Blasco fida nel suo braccio, e ogni altro insulta; Blasco anela ingoiar ei solo la gloria; ma non sa misurarsi, per Dio! Con tutte le forze si combatta, ove sta tutta la fortuna. Ristorerassi la nostra, se Iddio ne darà questa vittoria; se no, o perdendo con onore, o con infamia standoti, non ti aspettar che rovina a o. Disse, e non curandosene altrimenti, nel suo silenzio tornò”.
“Ma Federigo colse questo lampo; considerò che a star dubbioso un istante perdea tutta la Sicilia, osteggiata da due bande, oppressa, sedotta ; e vergogna l'accese, e necessità di lavare a rischio della sua vita la fuga del capo d'Orlando”.
Federico lasciò Castrogiovanni sotto il comando di Guglielmo Calcerando, il quale era già avanti con gli anni, presidiata dai cittadini, e da altre milizie già sul luogo. Castrogiovanni sarebbe stato l’ultimo baluardo nel caso in cui Roberto avesse cercato di inseguirlo.
Federico marciò alla volta di Trapani, partì alla volta della Val di Mazara. Molti palermitani si unirono al suo passaggio. Lungo il cammino, da Palermo e dalle vicine terre, spontaneamente molti si aggregarono, non si curarono dell’inverno, non aspettarono nuovo comando. Bisognava marciare con celerità, per il pericolo che sopraggiungesse Roberto. In breve tempo furono addosso al nemico, il quale non essendo riuscito ad espugnare Trapani, si dirigeva verso Marsala.
"Era lungi la flotta; non restava alternativa alla battaglia: l'una e l'altra oste vi si apparecchiarono".
(Nell'immagine ricostruzione del Palatium, da Guida al Castello di Lombardia, Guide del rocca di Cerere Geopark)
Narrano gli storici:
“ Quanti cittadini di Castrogiovanni che erano capaci alle armi, animosi e volontariamente lo seguirono, come se si andasse ad impresa comune".
Nell'immagine successiva padre Giovanni dei cappuccini ci ricorda alcuni dei Fanti Ennesi che parteciparono alla battaglia della della Falconara.
Le decisioni di Roberto a Catania
Appresa la notizia dell’arrivo del fratello Filippo nella Val di Mazara, Roberto duca di Calabria convocò a consiglio il fratello Ludovico, duca di Svevia, Ruggero di Lauria, il conte Tommaso San Severino (padre di Ruggero), Gualtiero conte di Brienne, Ermigano Sabrano conte di Adrano, Gualtiero Baucio e molti altri autorevoli nobili che, come lui, si trovavano a Catania.
Le opzioni sottoposte al vaglio erano due. La prima prevedeva l’inseguimento di Federico III che si era mosso da Castrogiovanni. La seconda invece mirava ad approfittare dell’allontanamento del re di Sicilia per sottrargli quei castelli e quelle terre che erano rimasti quasi indifesi a causa della sua assenza. Quest’ultima inizialmente parve essere la soluzione migliore, in quanto tutti ritenevano che nel trapanese vi fossero forze angioine a sufficienza per sconfiggere l’usurpatore Federico. Considerando inoltre quanto rischioso fosse scommettere tutto su una singola battaglia, si credeva più opportuno mettere in difficoltà Federico attaccando la Val di Noto.
Nonostante tutto orientasse verso la possibilità di attaccare in diverse aree, si preferì seguire il consiglio di Ruggero di Lauria. Egli temeva che l’inesperienza militare di Filippo e la sua totale ignoranza dei luoghi avrebbero potuto essere il “tallone d’Achille” per l’esercito angioino. Di questo avrebbe potuto infatti approfittare Federico III d’Aragona. Si decise dunque di ricongiungere gli eserciti angioino-napoletani per un attacco simultaneo. Gli avversari in tal modo non sarebbero riusciti a giostrare bene la situazione in quanto attaccati sia da ovest sia da est. Il tutto si sarebbe risolto in una carneficina che avrebbe posto fine al conflitto a favore degli angioini.
L’esercito angioino fu così diviso in due schiere. La prima avrebbe dovuto percorrere la parte inferiore dell’Isola; la seconda la parte mediana. Si scelse di procedere a marcia forzata per evitare di arrivare a Trapani troppo tardi.
Lo scontro
“Avvenne, o almen poi si contò, che un Lopis di Yahim, ariolo, fattosi innanzi al re, vaticinavagli: «Vincerai, Federigo; io solo, con cinque cavalieri morrò. – Perchè dunque non fuggi? risposegli il re; noi nel nome santo di Dio pugneremo. – E quegli : Così è ſisso nelle sorti, ch'io muoia e che tu vinca!»
Non essendo riuscito a conquistare Trapani, che contrariamente alle aspettative si difese abilmente, arrecando notevoli danni alle truppe assedianti, il principe Filippo si dirigeva verso Marsala. Federico, che rapidamente aveva raggiunto la Val di Mazara, incontrò il suo avversario sul piano denominato della Falconara.
L’esercito di Filippo percorreva la strada che congiungeva le due città, mentre la sua flotta si muoveva con lui contemporaneamente. Quest’ultima, a causa del mare in tempesta e dell’assenza di porti lungo la costa, era però costretta a rimanere al largo. Federico III, preso coraggio dal fatto che il suo nemico non avrebbe potuto fuggire sulle sue navi in caso di vittoria e rincuorato dalla possibilità di poter dare battaglia per primo, decise di affrontare gli avversari.
Sia perché impossibilitato alla fuga, perché si sarebbe trattato di un atto disonorevole, sia perché aveva sottovalutato l’esercito siciliano, il principe di Taranto decise di fermare la sua avanzata. Spiegate le insegne, diviso l’esercito in tre schiere e si preparò allo scontro.
Lo schieramento di Filippo
La prima schiera, quella centrale, fu assegnata al comando del “su Mariscal, que se llamava Brolio de Bonzi”, con il compito di affrontare la fanteria. La seconda a sinistra, la tenne per sé Filippo, poiché non vide, oltre a quello di Blasco d’Alagona, alcuno stendardo regio.
La schiera sulla destra fu affidata a Ruggero di San Severino conte di Marsico.
Quest’ultimo avrebbe dovuto affrontare le truppe poste sotto gli stemmi del conte di Chiaramonte, Vinciguerra Palizzi, Matteo di Termini, Berardo di Queralt, Farinata degli Uberti “et castri Joannensium, qui cum Rege quasi communiter ad hoc bellum convenerant.” ( e i Castrogiovannesi, che con il Re come ad impresa comune, erano conventuti alla guerra).
Lo schieramento di Federico
Su suggerimento di Blasco d’Alagona anche l’esercito del re fu disposto su tre schiere.
Quella di sinistra, comprensiva dei temuti almogavars, era affidata allo stesso Blasco. Quella centrale era guidata dal re in persona. L’ultima, composta dai suddetti alleati, era quella posta a destra, contro Ruggero di San Severino.
La quantità degli uomini messi in campo non è del tutto chiara. Secondo quanto affermato dal corriere inviato da Federico ai palermitani dopo la battaglia e dalla lettera inviata da Carlo II a Filippo il Bello, il numero di cavalieri schierati dai napoletani ammontava a seicento. Il numero dei fanti non è specificato, ma le parole “grant compaignie de petons” fanno supporre che fosse consistente. Le truppe di Federico erano per lo più composte da fanti, animosi, ma senza disciplina. Ad ogni modo, il loro numero non è esattamente quantificabile.
(Nell'immagine il principe Filippo)
Lo schieramento iniziale
I cittadini di Castrogiovanni i primi a seguire il re ed i primi ad entrare in azione, lo storico Amari descrivendo quella giornata cita:
”L’oste siciliana, era più forte di tanti animosi, ma senza disciplina, l’aiutava un po’ di gente catalana... Federico assegnò la destra ai cavalli di Giovanni Chiaramonte, Vinciguerra Polizzi, Matteo di Termini, Berardo di Queralto, Farinata degli Uberti, e coi fanti di Castrogiovanni … quest’ala entrò per prima in battaglia.”
La battaglia ha inizio
I primi ad impegnarsi nella battaglia furono i Fanti Ennesi guidati dai nobili siciliani. Essi avanzarono contro l'ala destra del nemico guidata da Ruggero Sanseverino che a sua volta avanzò con i suoi fanti. Essendo rimasto il re di Sicilia indietro rispetto alle altre due schiere, poiché volle insignire alcuni del balteo militare, e non essendo state ancora spiegate le insegne reali, Filippo credette di avere la vittoria in pugno. Si era posto alla sinistra del suo schieramento in corrispondenza delle insegne di Blasco Alagona ritenendo essere lui alla guida delle schiere siciliane. Non volendo così aspettare altro tempo si diresse contro gli almogavars dando il via alla battaglia. I balestrieri provenzali a cavallo cominciarono a danneggiare la schiera avversaria con il lancio di dardi. Blasco d’Alagona si vide costretto a sollecitare più volte l’intervento del re e dei nuovi cavalieri da lui insigniti, avvisandoli che lo scontro era già iniziato.
Chi sono gli Almogaveri
"Gli almugaveri, fermilasciano avvicinare il nemico. Com'entra a gittata di mano, alor usanza gridano:"Aguzzate i ferri", e dan co' giavellotti a striscio sulle selci, che tutto allumò di scintille il terreno, scrive il Mountaner, con maraviglia e terror del nemico, esi venne alle mani"
Gli Almogaveri erano soldati mercenari, provenienti dalle montagne d’Aragona e di Catalogna. La parola viene dall’arabo mugâwir, che indica il marciatore, l’incensor dei testi latini. Erano armati di una corta daga e due giavellotti, avevano un equipaggiamento sommario, nel quale la prevalenza del cuoio ricorda le loro origini pastorali: "una tunica detta “gonnella”, “cassot”, “camisa”, ghette di cuoio, sandali dalle suole di cuoio, un berretto dello stesso materiale, talvolta rafforzato da una retina d’acciaio, sulle spalle una bisaccia di pelle che contiene i viveri.”
La Mischia
Veduto ciò il principe Filippo di Taranto, pieno di sicurezza, si diresse violentemente contro Blasco, minacciando più volte di far cadere il suo vessillo, che oscillava di qua e di là. Non essendo tuttavia riuscito, come sperava, a sbaragliare i suoi avversari, che si erano disposti a cuneo, il principe pensò di dirigersi in quel varco che il conte Ruggero di San Severino era riuscito ad aprire. Questi era infatti entrato in battaglia subito dopo Filippo, dirigendosi contro le insegne nobiliari schierate di fronte a lui.
Un uomo, di cui non viene riportato il nome, veduto quanto stava accadendo, rivolgendosi al re lo esortò ad allontanarsi per fuggire al pericolo. A questi il sovrano rispose: “Nos pro causa nostra, et nostrorum fidelium vitam nostram huic bello devovimus, quondam hic videtur nobis finis omnium agendorum. Vos autem, et quicumque maluerint, proditorum [sic] exemplo, si libeat, fugiatis.”; “Noi per la causa nostra e dei nostri fedeli, dobbiamo scommettere la vita in questa guerra perchè abbiamo fatto il grande giuramento che qui avremmo portato a termine tutto ciò che c’è da fare. Tu e chi preferisce un traditore come esempio, sei libero di fuggire” Detto ciò il sovrano spiegò il proprio vessillo, spronò il proprio cavallo e, seguito dagli altri cavalieri, “quamvis esigui numero”, si diresse nella mischia. La scena viene descritta dallo Speciale come un episodio di eroismo. Secondo questo cronista tutti coloro che si opposero al re furono abbattuti a colpi di mazza ferrata e di spada da parte dello stesso. Il sovrano, benché lievemente, fu ferito al volto ed alla mano destra.
Lo stesso vale per il principe di Taranto che dovunque andasse rifulgeva per la sua abilità guerriera. Filippo ed i provenzali si trovarono in tal modo quasi accerchiati dai nemici.
Alle sue spalle il principe di Taranto aveva infatti lasciato gli almogavars, che si erano nuovamente ricompattati, e Blasco con i suoi cavalieri. Di fronte sopraggiungevano il re ed i suoi alleati. Alagona, comprendendo che i cavalli non erano d’aiuto, bensì d’impedimento, poiché non c’era spazio a sufficienza per farli girare o per spronarli contro i nemici, ordinò agli almogavars di eliminarli.Questi obbediscono e con lance spezzate uccidono molti animali, anche della stessa schiera del re. Terminato ciò si slanciarono nella mischia come fanti.
La battaglia fu vinta, Racconta Paolo Vetri:
“Così fu vinta la battaglia della Falconara, nella quale Castrogiovanni, per avere dato tutti i suoi figli atti alle armi, di fronte all’isola, vi fece la più bella mostra; pel soverchiante contingente, vi rappresentò la parte principale, la parte che obbligò gli storici a farne speciale menzione... Federico vittorioso, rientra là donde si era partito, in Castrogiovanni, ove soggiunge il Littara (storico della Sicilia) , fu accolto con somma universale allegrezza. Ed invero , egli che si era portato ad quella estrema prova, accompagnato dai palpiti e dalle speranze, e vi tornava trionfante della più grossa battaglia della guerra del Vespro, combattuta a campo aperto, è logica conseguenza che quel popolo che lo aveva amorevolmente raccolto nel suo seno dovea prorompere nella più entusiastica dimostrazione , per rendere omaggio ai suoi che avevano partecipato a quella vittoria la più completa, ed al suo re che amava”
La Vittoria
Nel frattempo Filippo di Taranto si scontrò con Martino Peres de Ros, per caso. Martino, ignaro di chi fosse il suo avversario, colpiva il principe con la mazza nel tentativo di abbatterlo. Quest’ultimo riuscì a ferire il suo avversario, con ripetuti colpi di pugnale, tra il mento e le labbra. L’altro ferì leggermente al volto Filippo. I due, azzuffatisi, precipitarono a terra. Il principe, temendo di essere assassinato da una mano ignobile, invocando la Madonna, svelò la sua identità. L’aragonese, che era sul punto di tagliargli al gola, arrestò il colpo e chiamò Blasco, che combatteva lì vicino.
Questi, riconoscendo il principe, ordinò agli almogavars Domenico Gilio e Arnaldo Fusterio di ucciderlo, così da vendicare la morte di Corradino.
Essendosi però levata in campo la voce che duecento soldati nemici, mandati per la maggior parte dalla città di Napoli, si erano radunati sopra un’altura, sotto un altro vessillo, ed erano pronti a dare battaglia, Blasco d’Alagona fermò i due. Riflettendo infatti su come fossero andate le cose alla morte di Corradino, anche se il re Carlo era stato sconfitto, capì che sarebbe stato meglio mantenerlo in vita in vista di una futura pace. Re Federico, una volta saputo della cattura del principe, lo affidò, dopo averlo spogliato delle armi, a Pietro Tusculiano ed altri fidati maggiorenti.
- Ruggero di San Severino, udito della cattura del suo signore e meditando sul fatto che ormai la battaglia non avrebbe potuto mutare il suo corso, si offrì come prigioniero.
- Il marescalco Brolio de Bonzi fu trovato morto sul campo, trafitto da tante ferite.
- I duecento soldati, di cui si è detto sopra, tentarono una rapida fuga ma furono fermati ed uccisi.
-Tra questi era il viceammiraglio Pietro Salvacossa che offrì mille once per aver salva la vita. A lui si rivolse un certo Giletto, affermando che una tale cifra, benché ingente, non sarebbe bastata a perdonargli il suo tradimento. Detto questo gli recise la gola con la sua spada.
Il re Federico III rimase quindi vittorioso sul campo; i nemici furono privati dei loro beni che furono convertiti in bottino di guerra.
Gli Angioini sconfitti
Figlio di Carlo II, re di Napoli, e Maria d’Ungheria, nasce il 10 novembre 1278. Nomianto nel febbraio del 1294 il padre lo nominò Principe di Taranto, mentre il 12 luglio verrà elevato a Vicario Generale del Regno di Sicilia. La guerra in Sicilia contro Federico III lo costrinse ad intervenire personalmente nello scontro. Catturato durante la battaglia della Falconaria verrà tenuto nel castello di Cefalù fino alla stipulazione della pace di Caltabellotta, nel 1302. Morì nel 1320.
Gli Angioini sconfitti
Il nome di Pietro Salvacossa è quello angioino più ricordato nelle cronache che citano la battaglia della Falconara. Subito dopo la battaglia navale di Capo d’Orlando, Salvacossa aveva tradito Federico III, schierandosi con Carlo II d’Angiò. Mentre le poche galee rimaste nelle mani dei siciliani subito dopo la sconfitta si dirigevano a Messina, Pietro Salvacossa si diresse ad Ischia, di cui era Signore, ed offrì l’intera isola al sovrano angioino, in cambio della grazia. Il sovrano gli concesse il titolo di vice ammiraglio, secondo soltanto a Ruggero di Lauria. Il Salvacossa perderà la vita durante lo scontro del 1 dicembre 1299 per mano di un certo Giletto. Cercando di aver salva la vita gli offrì mille once. A lui si rivolse un certo Giletto, affermando che una tale cifra, benché ingente, non sarebbe bastata a perdonargli il suo tradimento. Detto questo gli recise la gola con la sua spada.
Gli Angioini sconfitti
Ruggero SanseverinoRuggero di Sanseverino, conte di Marsico, è il discendente dell’antico casato dei Sanseverino. Durante il regno di Federico II presero parte alla congiura di Capaccio. Quando questa fu sventata, i pochi superstiti sopravvissuti all’eccidio e alla vendetta dell’imperatore, costretti alla fuga, giurarono fedeltà al Papa e agli angioini. D’ora in avanti i rapporti tra la casata d’Angiò e quella napoletana diventarono sempre più stretti, facendo di questa lignée una delle famiglie più potenti del Regno di Napoli. Ruggero verrà incaricato di dirigere, in qualità di legato delle operazioni terrestri, parte dell’esercito durante la battaglia della Falconara. Catturato durante lo stesso episodio verrà rinchiuso nel castello di Monte San Giuliano (l’odierna Erice). Verrà rilasciato, secondo gli accordi di Caltabellotta, soltanto nel 1302.
I Vittoriosi: Federico III
Re di Sicilia
I Vittoriosi : Blasco I Alagona
La famiglia Alagona è una delle quattro dinastie catalano-aragonesi ad assumere un ruolo preponderante nella politica siciliana del Trecento. Blasco I, conosciuto anche come Blasco il Vecchio, giunse in Sicilia con trenta cavalieri e venti fanti nell’autunno del 1291. Fu capitano generale per tutta la Sicilia durante il regno di Federico III, coprì la carica di marescalco del regno già il 27.8.1297 e la mantenne almeno fino al 10.2.1301. Blasco morì di dissenteria a Messina poco prima del 29.9.1301.
I Vittoriosi : I Siciliani
Giovanni Chiaramonte
Vinciguerra Palizzi
Matteo di Termini
Berardo di Queralt
Farinata degli Uberti
I Fanti Ennesi
Bibliografia
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