Gli Affreschi della chiesa di San Francesco d'Assisi
Gli affreschi del "Cappellone"
della Chiesa di San francesco d'Assisi.
(da: Un pittore francescano ennese del '600: Giovanni Battista Bruno, Puntualizzazioni su una figura controversa)*
di Rocco Lombardo
Che gli affreschi conservati nel "cappellone" della chiesa ennese di San Francesco d'Assisi siano stati eseguiti da Giovanni Battista Bruno a riferirlo, tra i primi scrittori, è il cappuccino locale padre Giovanni, autore a metà '700 di un ponderoso manoscritto, giuntoci in due grossi torni, intitolato Storia veridica dell'Inespugnabile Città di Castrogiovanni, conservato nella Biblioteca Comunale.
Trattando dei personaggi che spiccarono nell'ambiente seicentesco di Enna, allora e fino al 1927 già dal periodo arabo chiamata Castrogiovanni, lo scrittore cappuccino afferma che tra loro si distinse:
«[...] il R.P. Bagilere [cioè, rectius: baccelliere; N.d.A.] Giovanni Battista Bruno religioso conventuale huomo virtuosissimo nella pittura il quale pinse molte chiese e cattedrali nella Sicilia; fece quella pittura del Cappellone della Chiesa del suo Convento di Castrogiovanni con anco stampare di poesia composizioni in rime spirituali...».
Giovan Battista Bruno, cenni biografici
Dai due eruditi palermitani Antonino Mongitore (1663-1743) e Giuseppe Maria Mira apprendiamo che Giovanni Battista Bruno nacque il 2 giugno 1647 e che «dopo aver appreso le umane lettere e la filosofia nel 1666 vestì l'abito religioso e tosto che ebbe il grado di maestro insegnò varie gravi scienze ai discepoli del suo Ordine in Messina, in Palermo e nella sua patria».
Ma questa attività didattica dovette durare poco, perché, come asserisce il Mira, seguito dall'ottocentesco storico locale Paolo Vetri, a seguito di non meglio specificati «sinistri incontri» che gli capitarono, frate Giovanni Battista, o meglio frate Giovanni di Sant'Antonio, nome col quale è indicato nella Bibliotheca universalis Franciscanorum richiamata dal Mira in una nota, «abbandonò detti studi ed applicossi alla matematica ed alla pittura e pinse varii quadri in Catania, Palermo, Piazza, Butera ed in Terranova di Sicilia».
Il Mongitore, ridimensionata la gravità di quegli "incontri" da lui considerati semplicemente eventi che impedirono all'egregio viro i meritori studiorum progressus, riferisce che il Bruno preferì coltivare le scienze matematiche e rifugiarsi negli ozi letterari, scrivendo "Fascetto di mirra" o vero Mazzetto di diverse Canzoni Siciliane Sacre, Morali e Proverbiali, un volume dato alle stampe a Palermo nel 1701 presso Felice Marino, e i saggi Anatomia della Prospettiva Ottica, Anottica e Catottica e Idea de' Buoni Superiori nonché Il San Clemente opera tragica in verso drammatico, tutti lavori non altrimenti noti perché forse rimasti inediti.
Ma soprattutto il Nostro si dedicò alla pittura dal momento che, come sottolinea lo stesso Mongitore, «haereditario quodam iure pingendi artificiun antplexus est».
E davvero la scelta di intraprendere un'attività artistica gli dovette riuscire più che naturale, suggerita com'era e quasi imposta, da una tradizione familiare così consolidata da apparire agli occhi dei contemporanei un sorprendente "tratto ereditario", origine di quella compiaciuta meraviglia di cui il Mongitore si fece portavoce veicolandola fino a noi a mo' di singolare dettaglio biografico che oggi, invece, ha perso l'alone di curiosità aneddotica, assumendo i contorni di realistica certezza dopo che Orazio Trovato, dai documenti rinvenuti presso l'Archivio di Stato di Enna, ha avuto la conferma che veramente erano pittori sia il padre Giuseppe sia il fratello Clemente. Ma mentre di costoro le carte finora compulsate hanno fornito varie informazioni relative alle opere eseguite, di Giovanni Battista a tutt'oggi non si sono invece reperite notizie attestanti l'attività artistica svolta, ma solo quelle connesse alle vicende familiari vissute, all'impegno profuso nell'insegnamento, alle iniziative sociali e religiose promosse, tra cui in particolare l'avvio nel 1702 della fondazione della Confraternita dell'Immacolata presso la chiesa del suo convento ennese.
A colmare la lacuna fortunatamente ci soccorrono i ragguagli offertici da Agostino Gallo (1790-1872), il cui manoscritto conservato nella Biblioteca centrale della Regione siciliana è stato pubblicato di recente. Apprezzandoli per la dovizia di ulteriori dettagli, li possiamo anche tranquillamente considerare connotati dal carattere dell'attendibilità dal momento che rappresentano la riproduzione delle lettere inviate all'erudito palermitano nel 1830 da due studiosi, Salvatore Portal e Giuseppe Alessi che, per essere locali, si possono presumere ben documentati. La prima missiva risale al luglio del 1830, scritta da Salvadore Portal con una concisione tale da far sospettare esiguità di mezzi espressivi e di appigli documentari, imputabile forse all'ovvia inesperienza di un giovane esordiente negli studi, che tale siamo indotti a considerare una figura che è rimasta alquanto anonima, pur nel ristretto ambito locale, non essendosi finora rintracciate sul suo operato altre notizie, probabilmente mancanti per una scomparsa precoce.
La seconda lettera fu trasmessa nell'agosto dello stesso anno dal canonico Giuseppe Alessi, ben più prodigo di particolareggiate comunicazioni, come si addiceva al dotto studioso che era socio dell'etnea Accademia Gioenia e di altre sparse in Italia e all'estero, docente di Diritto Canonico nell'Università catanese, autore di numerosi saggi, recitati nelle riunioni accademiche, pubblicati in riviste o rimasti inediti a seguito dell'improvviso decesso, avvenuto nel 1837.
Entrambi i corrispondenti del Gallo tengono a precisare all'unisono: «che bisogna distinguere questo artista da Giuseppe Bruno messinese, allievo del Quagliata che si distinse men per la pittura ad olio, o a fresco, che per quella degli smalti» ma non ci chiariscono il motivo di questo avvertimento apparentemente ovvio, data la evidente diversità dei nomi. La spiegazione può venirci dai rinvenimenti archivistici del Trovato che non solo hanno messo in luce le relazioni parentali di Giovanni Battista Bruno, ma hanno rivelato che fu suo fratello Clemente ad eseguire gli affreschi nella cattedrale catanese, probabilmente andati perduti nel terremoto del 1693, ed hanno inoltre restituito al padre Giuseppe (questi più facilmente soggetto al disguido dell'omonimia paventata!) la paternità della pala col Martirio di S. Andrea, eseguita nel 1646 per la sagrestia del duomo ennese e tuttora ivi conservata, come già d'altronde aveva appurato Antonino Ragona frequentando l'archivio della Chiesa Madre.
E come aveva correttamente anche già scritto il cappuccino padre Giovanni, ignorato o frainteso dal Canonico Alessi, se mai lo consultò, che nel fornire le notizie al Gallo riconduce invece l'opera, enfatizzandone i pregi per «la gloria graziosamente toccata», a Giovanni Battista, la cui identità era già stata destinata a subire un'altra confusione, stavolta con quella del fratello Clemente, da parte del Mongitore allorché questi lo considera l'artista che «coloribus elegantissime illustravit Cathedralem Catanae Ecclesiam», fuorviato dal fatto che proprio Giovan Battista nel 1682 riscosse la somma di onze 29 e tarì 6 a saldo dell'esecuzione dell'opera ma ignorando l'incarico di procuratore affidatogli per l'occasione dal parente, come un documento notarile ci ha di recente svelato."
La notorietà che la produzione letteraria, gli studi scientifici, l'attività didattica e gli altri «non injucunda ingenii monumenta», accennati dal Mongitore, avevano procurato a Giovanni Battista fece sì che questi oscurasse le opere dei congiunti, i cui lavori anzi gli furono attribuiti, come emblematicamente dimostrato dal caso del Martirio di Sant'Andrea, eseguito da Giuseppe, appunto omonimo del più noto pittore nonché valentissimo orafo messinese, da cui il Portal e l'Alessi ci raccomandano di distinguerlo.
Gli affreschi del Cappellone, descrizione
Sia il Portal sia l'Alessi, però, concordano nell'assegnare a Giovanni Battista l'esecuzione degli affreschi nella chiesa di San Francesco, che 1'Alessi in modo particolare si compiace di descrivere minuziosamente nella relazione inviata al Gallo, sottolineandone peraltro «il colore troppo vivo».
Giovanni Battista decora l'ampia volta dell'abside poligonale e non lascia priva di pennellate quasi nessuna porzione di parete, come ben nota l'eclettico canonico ennese, che tuttavia nella sua esposizione si sofferma di più sulle due grandi scene con gli episodi della vita di S. Antonio: quello del Prodigio «che libera suo padre condannato a morte imputato di omicidio, chiamando dal sepolcro l'estinto, che sorge dalla tomba», realizzato sulla parete di destra;
e quello «dello schernitore dei prodigi di Antonio, che infingendosi cieco e bendatisi gli occhi e svelandosi dappoi ad Antonio, trovassi gli occhi caduti nella benda, onde supplice e pentito l'appalesa ad Antonio presente, in mezzo ad una turba che li circonda», raffigurato sulla parete opposta.
A completare la già puntuale descrizione, 1'Alessi aggiunge che nell'ambito del vasto schema compositivo, occupante tutta l'ampia abside (la cui fascia inferiore, forse pure decorata, oggi ci è occultata da un coro ligneo collocato nella prima metà dell'Ottocento) il pittore «vi continua l'architettura dei cornicioni del tempio, colà poggia degli angeli sedenti e vi fa scendere delle cornici maestrevolmente toccate d'oro».
Il Bruno, infatti, adeguandosi al gusto barocco del tempo, ricorre ad espedienti figurativi che catturano l'attenzione: sontuosi drappi, così fittamente guarniti di adorni da richiamarci un anacronistico horror vacui, fanno scendere illusoriamente qualche lembo sui cornicioni, dispiegandosi tra sfarzose cornici che, nella ben riuscita ingannevole imitazione dello stucco, racchiudono scene della vita dei santi Antonio, più numerose, e Francesco, abilmente eseguite con scorci arditi e aeree prospettive, ben visibili sia in quella raffigurante Cristo e la Vergine attorniati da angeli che appaiono a s. Antonio ammalato
sia in quella riproducente La Vergine che porge Gesù Bambino a s. Antonio.
Al centro del catino absidale è raffigurata la Trinità che si manifesta ai santi Francesco e Antonio, inserita in una cornice mistilinea, resa fintamente spessa da un gioco prospettico e circondata da una densa decorazione che si sparpaglia attorno frammentandosi in nastri, ghirlande, volute, testine di putti, figure svolazzanti, cortine e ghirigori che a stento lasciano respiro a simboli, vedute paesaggistiche, volti di apostoli affrescati qua e là, secondo un'avvertita simmetria.
Fanno da freno e contrappunto al movimento creato dalla ressa tripudiante dei decori quattro "statue" allegoriche di Virtù dipinte in monocromo per una resa più efficace e ingannevole della materia marmorea, rievocata anche nella raffigurazione di due busti, la quale con la sua simulata consistenza scandisce gli spazi smorzandone l'eterea ampollossità ornamentale.
Inoltre alla vasta composizione, che si avvale di finte membrature architettoniche e di un'abile ambientazione spaziale delle scene principali, affollate da personaggi sapientemente collocati su sfondi prospetticamente ben congegnati e talvolta resi nei tratti fisionomici con una manifesto ossequio al gusto ritrattistico, un ulteriore pregio conferiscono i "maestrevoli tocchi" di doratura sparsi in vari punti.
Essi contribuiscono sia a dare aggetto e spessore ad illusori elementi decorativi ed architettonici sia a conferire splendore luministico a tutta l'opera, generalmente immersa nella penombra dell'ampio vano absidale. Recuperato dalla poderosa torre dell'austera dimora-fortezza chiaramontana, esso riceve un tenue chiarore dalle poche aperture, ma appare sfolgorante di luci nelle cerimonie liturgiche dedicate al Santo titolare e all'Immacolata. In passato risplendeva pure in occasione della processione che si svolgeva in onore di sant'Antonio da Padova, molto sentita a livello devozionale popolare e gelosamente difesa dai frati conventuali, perfino dinanzi al Tribunale della Regia Monarchia, dai reiterati tentativi di usurpazione di una pratica che essi consideravano un esclusivo e antico loro privilegio.''
E appunto sant'Antonio, già effigiato in una statua eseguita nel 1623 dal nicosiano Stefano Li Volsi, oggi sostituita da una di recente fattura e pertanto occultata alla vista dei fedeli, sembra il vero protagonista del ciclo pittorico che Giovanni Battista Bruno eseguì anche per una sua venerazione particolare verso il Santo di cui nello stato monastico pare portasse il nome."L'artista lo condusse a termine con una perizia di cui ebbe fiera consapevolezza se alla fine della scritta «Locus iste sanctus est», delineata sulla parete destra, appose con manifesto orgoglio l'abbreviazione «Br. R», che, se correttamente sciolta in Bruno restituii' (o retulit), cioè «[Giovanni Battista] Bruno rifece», fa inoltre esplicito accenno ad un'opera preesistente, riconducibile al pittore e indoratore frate Leonardo Lupo, attivo nella fabbrica nei primi decenni del '600, al quale, con persistente memoria dei suoi interventi effettuati nel corso dell'annosa ristrutturazione del complesso conventuale, sono stati talvolta erroneamente assegnati gli affreschi di Giovanni Battista Bruno," del quale il Mira dichiara di ignorare l'anno della morte che di certo sarà avvenuta non prima del 1708, anno in cui il Mongitore pubblica il primo torno della sua opera dove, nel corso delle notizie biografiche dedicate al Bruno, dichiara che mentre esse vanno in stampa, ovvero «praelo subtnittuntur», il nostro artista ancora «vivit, vir eximius, morum integritate laudabilis», cogliendo così l'occasione di tributargli tra le righe un ultimo affettuoso e sincero elogio.
* Post pubblicato il 10/11/2012, foto di Paolo Mingrino
Estratto da "Un pittore francescano ennese del '600: Giovanni Battista Bruno Puntualizzazioni su una figura controversa" di Rocco Lombardo,
articolo pubblicato su: FRANCESCANESIMO E CULTURA NELLE PROVINCE DI CALTANISSETTA ED ENNA
Atti del Convegno di studio Caltanissetta-Enna 27-29 Ottobre 2005, A cura di Carolina Miceli
- BIBLIOTECA FRANCESCANA OFFICINA DI STUDI MEDIEVALI, PALERMO 2008