Saverio Marchese - Il Campanile Enna

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Saverio Marchese

Storia di Enna > Biografie ennesi illustri

Saverio Marchese, pittore ennese
Rocco Lombardo (Henna, gennaio 2003)

Siamo agli albori dell’Ottocento: Enna mantiene ancora il nome di Castrogiovanni storpiatole dagli Arabi quasi mille anni prima e rinverdisce i passati fasti normanni ed aragonesi favorendo le occasioni e i momenti di fervore culturale imperniati sulla vivace operosità dell’Accademia Pergusea, sulle rinomate esecuzioni della Cappella Musicale e sulle prestigiose committenze della Chiesa Madre e dei  tanti Ordini monastici che gareggiavano nel rendere sfarzosi i templi in loro custodia. Trae inoltre gran lustro dall’eclettica attività del canonico Giuseppe Alessi e dal lungimirante mecenatismo degli amministratori civici, capaci di creare un ambiente erudito adatto ad offrire linfa vitale a tanti musicisti, letterati, pittori, che pur onorando il luogo natio col loro valore non riescono tuttavia a consentirgli di essere eletto cattedra vescovile e  nominato sede di capo-valle.

Saverio
Marchese
disegni

In questa Castrogiovanni borbonica, ricca di fermenti culturali ma insoddisfatta del suo ruolo destinato a diventare sempre più secondario, Saverio Marchese nasce, notato nei registri parrocchiali sotto la data del 4 febbraio 1806 coi nomi di Gesualdo Francesco Saverio Biagio, da don Vincenzo, avvocato di grido e amministratore pubblico stimato, e da Teresa Manna, genitori altresì di Pietro, destinato anche lui alla vita politica, di Giuseppe, futuro parroco della Chiesa di san Tommaso, e di Giovanna, andata poi sposa a Luigi Longi,  grande esperto d’arte oltre che di leggi. Saverio proviene, dunque, da una famiglia benestante e influente, almeno per una piccola città che qualche decennio prima era apparsa poco più che un grosso borgo al pretenzioso Dominique Vivant  Denon salito, come tanti altri stranieri,  sulle sue balze pittoresche a cogliere l’eco dell’antico mito di Cerere, per lasciarcene poi una descrizione pertinente che le stampe di Châtelet confermano, assurgendo a fonte veritiera di una rappresentazione dell’assetto urbanistico ennese di fine ‘700 che è sintesi felice di spunti pittoreschi e dettagli realistici attendibili.

Il giovane Marchese può ritenersi fortunato: cresce in una famiglia agiata, al riparo quindi dalle ristrettezze e dagli stenti, e per di più in un colto ambiente che può stimolare beneficamente le sue naturali tendenze alle scienze e all’applicazione artistica. Paolo Vetri, che è uno dei primi autori che a fine Ottocento ci parlano di lui, ce ne lascia un conciso ed efficace ritratto fisico allorché ce lo descrive “di persona ben conformata, grave e serio d’aspetto, con una fronte alta e larga”. E aggiunge che “ fra due occhi piccoli e vivaci gli scendeva un bel naso profilato che, ripartendone il viso alquanto bruno ed ovale, nell’aggrottare come di consueto le grosse sopracciglia, faceva meglio avvertire che raccoglieva i pensieri; misurato nel dire, non provocava, discuteva con modestia e svolgeva opportunamente le sue vaste cognizioni…”. Lo stesso storico ci dà pure un quadro delle qualità morali e culturali del pittore quando scrive che “sebbene apparentemente cupo, era un poeta forbito, ameno e giocondo, tendente alla satira senza acrimonia; […] era uno scienziato profondo, un filosofo.

Dotato di chiaro e nobile ingegno, di maturità di giudizio, alto era lo scopo cui indirizzava i suoi studi: contemplava la natura, accoppiava la scienza con l’arte, illustrava le razze umane”. Come si vede, gli interessi del Marchese erano molteplici: la poesia, le scienze, la pittura. E pure la politica, giacché arrivò ad essere sindaco di Castrogiovanni, proprio negli anni più tormentati, decisivi e turbolenti della storia locale e nazionale, senza però che potesse vedere realizzato il sogno dell’Italia unita, comune ad ogni patriota del tempo, negatogli da una morte prematura.
Delle opere scientifiche e letterarie non si è rinvenuta alcuna traccia, anche perché i suoi saggi e i suoi componimenti poetici rimasero manoscritti presso amici e parenti, disinteressati alla pubblicazione. Si conoscono, però, i titoli, tra cui  Le razze umane, dato certamente ad uno studio abbastanza voluminoso e interessante, andato disperso come il resto della sua produzione letteraria, meno fortunata di quella artistica, di cui invece abbiamo diverse ed eloquenti testimonianze.


La sua vita sociale era densa di soddisfazioni, in contrasto con quella affettiva, inaridita nella solitudine di un celibato forse non voluto: dall’atto di morte, stilato il 27 novembre 1859 all’indomani del decesso, risulta che non era coniugato ma presso i discendenti è radicata la tradizione, di sapore romantico, che l’avventuroso Saverio fu perdutamente innamorato di una “bellissima modella” che, forse per l’opposizione della famiglia, non sposò mai, nonostante la nascita di una figlia. Doveva essere una popolana, una delle tante graziosissime popolane che si dilettò a ritrarre nei suoi disegni, bella ma non degna del suo casato. Frugando tra le carte d’archivio si ha la conferma di questa storia d’amore che i discendenti definiscono “tormentata e infelice”.






Si chiamava Angela Rutella la donna che diede al pittore una figlia, Nunziatina, destinata a crescere tra le mura del Collegio di Maria e a perpetuare l’inclinazione artistica del padre nell’attività di abile ricamatrice. Da un disegno paterno appare delicata nei lineamenti, dotata di una bellezza non appariscente come quella di sua madre, a cui sono di certo ispirati tanti volti femminili e studi di nudo rimasti delineati nei numerosi fogli d’album che gli eredi conservano assieme ai ricordi della struggente storia romantica che vedeva protagonista, antesignana di una delle tante eroine-vittime dei romanzi strappalacrime di Carolina Invernizio (1851-1916), una umile donna del popolo, priva di adeguata cospicua dote ma fornita di seducenti attrattive, e un artista affascinante, irrequieto e bohémien ma facoltoso e votato al successo.

i quattro
profeti
Chiesa di S.Tommaso


Geremia

Ai tempi del suo idillio contrastato con la Rutella, difatti, Saverio Marchese era già un artista abbastanza famoso, stimato e apprezzato anche al di fuori della città natia, come conferma la notizia che alcune sue opere sono state di recente rintracciate a Palazzolo Acreide, mentre di altre si sa che sono sparse in chiese del territorio ennese, senza conoscerne purtroppo l’esatta ubicazione. Fu, la sua, però una gloria di breve durata: già ai primi del Novecento ormai il suo nome diceva ben poco ai suoi stessi concittadini e sulle sue tele calava, non solo metaforicamente, uno spesso strato di polvere, forse perché il Marchese, pur avendo messo a frutto le varie esperienze dei suoi viaggi di studio e la conoscenza delle diverse tecniche apprese (olio, affresco, matita, china…), non seppe svincolarsi dalla tradizione e dall’influsso dei pittori sommi cui si ispirava, come era riuscito  a fare, ad esempio, il palermitano Giuseppe Patania (1780-1852) che, pur vissuto nella stessa temperie, arrivò ad essere considerato “re della pittura neoclassica e della pittura romantica”. Il tema religioso delle sue tele, inoltre, non gli consentì di spaziare come voleva, contribuendo non poco a conferire alle sue pitture quel senso di impassibile compostezza che le distingueva tutte, ingessandole in schemi ormai superati e privandole di spinte emotive.


Daniele

Confrontandole con la naturalezza accattivante dei disegni, si è propensi a credere che la loro freddezza sia dovuta ai limiti imposti dai committenti, come si evince dall’episodio, esemplare per certi versi, di cui fu protagonista suor Maria Rosalia Rosso, abbadessa del Monastero di santa Maria del Popolo.
Al Marchese, ancora talmente giovane da essere rappresentato dal fratello maggiore Pietro, a sua volta in veste di procuratore speciale del padre Vincenzo, nel contratto stilato dal Notaio Giovanni Virardi nel settembre del 1827, la colta suora, appartenente ad una delle più aristocratiche famiglie cittadine, commissiona gli affreschi della volta della navata e dell’abside e ben quattro quadroni: nei primi dovevano essere rappresentate scene della vita del profeta Elia, nei secondi dovevano raffigurarsi la Madonna del Carmelo, l’Adorazione dei Magi, la Morte di San Giuseppe, e Sant’Alberto che compie un miracolo. Lo schema compositivo generale dell’affresco, la sua ripartizione, la presenza degli adorni sono con minuzia di dettagli contemplati nell’atto e se al giovane artista si assicura che nei quadri potrà aggiungere “l’apparato di figure ed altro che crederà” e inserire “quegli  adorni che crederà” e se si ribadisce che a suo “piacere”, a sua “scelta” e a suo “piacimento” si potrà sbizzarrire nell’individuare il “miracolo” di Sant’Alberto più “adattabile”, alla fine l’abbadessa si riserva di dare lei “quei soggetti che vorrà”, limitando con la sua autorevolezza la libertà di “invenzione e scelta” già concessa, e di scaglionare le date di consegna dei lavori, l’ultima fissata al settembre del 1830. Il giovanissimo pittore rispetta le clausole del contratto e alla scadenza del triennio  la chiesa del monastero si impreziosisce degli affreschi, oggi lacunosi, e dei quadri, che dopo un parentesi di custodia trascorsa alla Sala Cerere di Palazzo Chiaramonte, sono tornati agli altari d’origine, nel frattempo sottoposti al restauro che ha interessato tutto il tempio.

Isaia

Proprio in quel torno d’anni Saverio Marchese aveva da poco completato due cicli di studi, iniziati appena tredicenne a Roma nel 1819, dove si fermò fino al 1824, e conclusi a Firenze nell’agosto del 1827: il Comune si era assunto l’onere del suo mantenimento ( che costava 72 ducati a quadrimestre) consapevole della sua “straordinaria abilità per la pittura” e fiero che il giovane era “soggetto di ammirazione e di applauso”, come si legge nei documenti dell’epoca. Abilità che d’altronde le opere già eseguite dal promettente allievo e offerte alla città in segno di riconoscenza, Achille sotto le mura di Troia e Caio Mario in carcere (oggi di incerta ubicazione) ampiamente dimostravano agli occhi degli amministratori comunali  entusiasti (fra cui, per di più direttamente interessato, il padre don Vincenzo) di quel “talento” e speranzosi di riceverne “i più felici risultamenti, che saranno del più alto decoro al Regno delle Due Sicilie in generale ed alla patria”, stando alle espressioni encomiastiche e lusinghiere contenute nelle istanze rivolte all’Intendente per essere autorizzati a concedere il “sussidio” richiesto. Sapeva bene, pertanto, il giovane Saverio che dal gradimento dell’opera, oggetto della commissione di suor Maria Rosalia Rosso, la prima importante e pubblica che riceveva in città, dipendevano le successive e perciò fece sfoggio di tecnica e inventiva, nonché di accondiscendente disponibilità. Le pur rare cronache cittadine sono avare di commenti su quell’evento ma il turbinio di commissioni che ne seguì ci inducono a credere che quel primo lungo, impegnativo ed estenuante lavoro, condotto a quanto pare senza l’ausilio di collaboratori, fu bene accolto, visto che fu presto seguito dall’esecuzione di tele ed affreschi per diverse chiese cittadine: i profeti Geremia, Ezechiele, Isaia e Daniele (di evidente ispirazione michelangiolesca) si ammirano nella chiesa di San Tommaso;

Ezechiele

la grande pala raffigurante il Purgatorio è posta sull’altare maggiore della Chiesa delle Anime Sante; il quadro con l’Estasi di Santa Teresa si trova nella chiesa del Carmine; un affresco riproducente la Trasfigurazione (esemplata su quella di Raffaello) decora il soffitto della sagrestia del Duomo. Sappiamo, inoltre, che la chiesa del Collegio di Maria custodiva una Sant’Anna e quella di San Cataldo un San Liborio ma a smentire una committenza esclusivamente religiosa ci soccorre l’esecuzione di affreschi sulla volta di una casa patrizia ( già appartenuta alla colta famiglia Falautano, estintasi a Enna nel ramo principale nel corso del primo ‘900) riproducenti scene dipinte da Raffaello nelle sue celebri Logge vaticane: Loth e le figlie, Esaù e Giacobbe, Il ritorno di Esaù, la Fuga di Giacobbe, l’Incontro di Giacobbe e Rachele, Dio appare ad Isacco, Giacobbe chiede Rachele in sposa sono quelle che ricordiamo d’aver ammirato una ventina d’anni fa, rammaricati di sapere che oggi non esistono più, certo per i danni causati dall’incuria, e il cui soggetto sacro si giustificava con la presenza in famiglia di un dottissimo Canonico. Miglior fortuna ha arriso invece ai numerosi disegni che il Marchese andò eseguendo nel corso della sua vita: sono centinaia di fogli, alcuni inseriti in album, altri sparsi, che si possono raggruppare tipologicamente in due serie: le esercitazioni accademiche svolte a Roma e Firenze su opere di pittura e scultura; e le scene di genere, riproducenti momenti di Vita quotidiana di popolane e popolani ennesi, ritratti di giovani, studi di nudo, vedute paesaggistiche (per lo più di Castrogiovanni, ma pure di qualche altra città dal pittore visitata), figure di animali, schizzi vari….

Chiesa
Anime sante

Il Purgatorio

Realizzati a matita, più raramente a china, sono conservati dai discendenti, propensi a credere  che un buon numero sia andato disperso convinti dalla presenza di una rilegatura non originale degli album, le cui pagine peraltro denunciano salti frequenti nella numerazione, neppure essa originale, che mano solerte e sollecita ha apposto in tempi relativamente recenti nell’intento lodevole di farne una ricognizione inventariale. Un destino, dunque, un poco anche avverso per questi disegni, dove del Marchese la vena, libera da costrizioni esterne e da preoccupazioni di carattere formale, si manifesta in tutta la sua spontaneità, rendendoli, a nostro avviso, la sua produzione più significativa, idonea a dimostrarci che egli era un artista non solo incline all’imitazione, dotato d’un certo mestiere, pronto a sfruttare abilmente i suoi studi meticolosi, ma pure un pittore che non viveva solo di reminiscenze accademiche ma sapeva calarsi nella realtà del suo tempo, cogliendone gli aspetti più interessanti. Tra i tanti fogli  fortunatamente sfuggiti alla dispersione o al naturale disfacimento, quelli contenenti ritratti e scene di genere ( tra cui un gruppo  che comprende vedute di una Castrogiovanni ormai scomparsa, delineata con tenerezza amorevole nei suoi scorci più suggestivi) immortalano vecchi rugosi, liete e speranzose giovinette, anziane donne pensierose, bambini paffuti, tutti colti, in pose naturali e semplici, nei consueti gesti d’ogni giorno, ispirandoci  emozioni coinvolgenti.

Dai segni morbidi e decisi tracciati sulla carta, purtroppo condannati dal tempo alla labilità, non spira il vento gelido dell’accademismo ma si sente palpitare la gioia di cogliere un momento di vita; non traspare l’infatuazione insistita del particolare ma una piacevole e rapida descrizione del dettaglio, visto come elemento vitale; non scaturisce il fastidio che col confronto spontaneo un’arida imitazione genera  ma sgorga con naturalezza la fresca ispirazione d’un artista entusiasta della vita, dotato di perspicacia e di acuto senso d’osservazione, pieno d’amore per le cose e le persone che ogni giorno ci sono compagne nel nostro cammino. Nei disegni il Marchese uscì dagli schemi in cui gli studi lo avevano relegato e visse pienamente il suo tempo, mostrando di essere, con questo suo amore  e interesse per gli umili, con questa sua “scoperta” innovativa della classe subalterna e dei suoi preziosi valori, un uomo precorritore dei tempi e dell’opera del Pitrè e del Verga che quella classe sociale a lungo negletta esalteranno come portatrice e depositaria di beni ideali inestimabili.
La matita, la china o il raro carboncino, sono usati con sobria maestria e senza ripensamenti e tracciano con Saverio Marchese leggera soavità un segno morbido che modella con grazia le figure, di tanto in tanto immerse nel loro congeniale ambiente, appena evocato da semplici oggetti solo accennati, che segnalano quasi con pudore la loro umile presenza. La linea corre con sinuosa sensibilità a descrivere gesti quotidiani e atteggiamenti consueti e confidenziali, rappresentati in modo carezzevole che evidenzia l’espressione naturalistica e coglie con plastica delicatezza le forme, che non si addensano in volumi compatti ma si distendono con sfocata morbidezza in tenui chiaroscuri. L’artista, servendosi di un segno spesso di straordinaria esattezza, avvolge le figure immergendole in un’atmosfera  tenera in cui i caratteri psicologici e fiosionomici sono fissati nella massima intensità e indulgendo all’analisi aneddotica esaltata dalla cura del particolare esprime e condensa il suo anelito a cogliere la poesia nella quotidianità.

Tutto questo contribuisce a farci avvertire nel pittore l’affettuosa dimestichezza col suo ambiente natio e lo spontaneo amore per la gente della sua terra, la più umile, dolente e ignorata, che egli ritrae, con vivacità naturalistica, intenta alle solite occupazioni giornaliere, vestita ora di abiti modesti ora del costume festivo, non trascurando di far trasparire dai volti i sentimenti che li animano e di annotare i più amabili particolari che li riguardano: il ricamo gentile e minuto sull’ampio scialle o sulle maniche; i pendenti (bucculeddi)  di varia ed elaborata foggia e le vistose collane indossati con disinvoltura; i neri capelli raccolti in crocchie rigonfie o annodati in lunghe trecce; le scappucce e i firriuli avvolgenti e caldi; le modeste quazate e le tipiche squazette… Nel cogliere i momenti più vari della vita di ogni giorno, l’artista si limita ad eternarli in rappresentazione fine a se stessa, aliena dal dramma, dalla denuncia, dalla protesta, per cui il suo occhio amabilmente scrutatore si accontenta di captare gli oggetti e di descriverli con pochi tratti, quasi consapevole di assegnare loro il gradito compito di suggerirci, con la loro aria soave, l’atmosfera di un tempo, calda di affetti e densa di sentimenti, quando la vita scorreva con ritmo lento e sereno e bastava poco, pur nelle angustie, a rendere lieta una giornata trascorsa quasi sempre tra fatiche e privazioni.

Il Marchese finisce così per affidare a noi, distratti dal benessere di un terzo millennio agiato ma senza pace, le immagini di un mondo scomparso, povero ma appagante, e ci  lascia non solo un patrimonio d’arte ma pure un ricco retaggio di memorie e, per certi versi, un nostalgico commovente “ritratto” in cui si riflette un certo periodo storico e, di più, una condizione e uno stato dell’animo di una delle più antiche città di Sicilia.
In questi fogli, così, si raggrumano intense emozioni, che suscitate dal sapore e dalla percezione di un passato di cui non si sopisce mai in noi la vaghezza, si trasformano in un monito salutare, coagulato in un cumulo di inviti impercettibili e pure pressanti, a tornare ad un’era di smagata innocenza e d’ingenuo candore, di cui si avverte ogni giorno di più la mancanza.

E quando  Madame Jeannette Power Villepreux attribuisce al nostro pittore “un'immaginazione svariata e brillante” e nell’esecuzione “una spontaneità che innamora” senza dubbio si riferisce più che ai quadri proprio ai pregevoli disegni, rimasti poi purtroppo sconosciuti fino ad oggi e di cui, per gentile cortesia di una discendente, abbiamo potuto prendere visione, convincendoci a condividere appieno della Power gli elogi, dal momento che le ben note opere ad olio o a fresco si mostrano impacciate nei loro esiti manieristi e incerte nell’adesione completa ad un neoclassicismo ormai allo stremo. Dagli album appare evidente che  il tema profano è dominante e che i valori terreni prevalgono su quelli trascendentali, tanto che l’artista più che alla Madonna dell’Adorazione dei Magi eseguita per le carmelitane o alla Santa Teresa in estasi conservata alla Chiesa del Carmine è alle popolane dei disegni che conferisce uno splendore quasi divino. E, considerata la riservatezza di cui sono stati a lungo oggetto, vien da credere che lo stesso autore abbia celato i fogli in cui le ritrae nella loro sensuale bellezza,  esaltata senza malizia e morbosità anche nei non rari studi di nudo, ben consapevole della loro portata “rivoluzionaria” destinata, nel suo ambiente ignaro delle novità da lui apprezzate nei suoi apprendistati romani e fiorentini, alla incomprensione dei più, o peggio alla loro scandalizzata riprovazione.
Dall’ infaticabile viaggiatrice franco-inglese avida d’arte e di conoscenza, che era, come il nostro pittore, socia dell’Accademia Pergusea, perciò frequentatrice, anche se non assidua, dell’ambiente ennese e pertanto attendibile fonte, apprendiamo pure che il Marchese fu molto operoso, giacché c’informa che “la di lui casa è una collezione delle sue migliori produzioni”, che lo storico Paolo Vetri alla fine dell’800 considera già “naufragate” ovvero perdute o  disperse, e che l’artista “ha fatto molte opere all’interno dell’Isola”. Opere difficili da identificare, perché gli autori locali antichi non le menzionano e perché non si è ancora proceduto ad una loro attenta ricerca. Se si sa con certezza che per Palazzolo Acreide ha eseguito la Madonna Odigitria, lasciandovi una Addolorata incompiuta per l’immatura improvvisa scomparsa, si ha pure ragione di credere che altri suoi lavori si trovano in qualche chiesa della nostra provincia e che bozzetti e quadri di maggior impegno sono custoditi nel Museo Alessi, in attesa che se ne riconosca la paternità a questo pittore che, fra l’altro, della sua Castrogiovanni e dei suoi abitanti lasciò un ricordo altrimenti irrintracciabile.



(articolo e disegni per gentile concessione di Rocco Lombardo)



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