Castrogiovanni - Il Campanile Enna

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Castrogiovanni

A letteratura du Campanaru > Scritti di Nino Savarese

CASTROGIOVANNI

di Nino Savarese


("Castrogiovanni"  è tratto dalla raccolta postuma di operette di Nino Savarese "La semina nella bufera".
Emozioni, sensazioni, ricordi di una Castrogiovanni che hanno vissuto i nostri padri, di cui noi 50enni abbiamo ancora intravisto qualcosa, di cui i nostri figli non hanno conoscenza.)  


In vista dell'Etna da un parte, a pochi chilometri del Lago Pergusa dall'altra, sedi di miti e di leggende affascinanti, sorge, sopra un altipiano amenissimo, Castrogiovanni: l'antica Henna.

Da valle, sulla via di Catania, l'estrema punta dell'altipiano appare come un enorme masso sconvolto dalle furie degli elementi, con la sua roccia come squarciata violentemente e le irte punte e le smozzicature dell'antico Castello; mentre il resto della lunga linea del paese si addolcisce nel profilo delle case e delle chiese, che si estendono con una chiara orlatura sopra i prati e le boscaglie dei fianchi del monte.

Questa è la parte centrale, agricola e pastorale, della Sicilia, e della Sicilia Castrogiovanni fu detta dagli antichi « l'ombellico ».

E l'antico nome della città avrebbe origine, secondo alcuni, dal vocabolo greco Ennaiein (abitar dentro, nell'interno), secondo altri dal condottiero Enno che la fabbricò. L'attuale è derivato da Castrum Hennae, che i Saraceni corruppero in Casrjanni e poi i Normanni in Castrianni, corruzione a sua volta di Castrienna.

La campagna intorno, celebratissima dagli antichi, è tra le più belle della Sicilia. In certi punti ha la gentilezza del classico paesaggio dell'Italia centrale, reso più robusto e nodoso dalla secchezza del clima; certi altri, folti di secolari cipressi, hanno l'aspetto un po' rude di antichi presidi guerreschi. Certe plaghe ancora intatte, che si allargano in vasti pascoli popolati di armenti, richiamano l'immagine del primo schiudersi della vita storica dell'isola all'arrivo dei coloni greci, allorché la Sicilia era una società primitiva di pastori e di agricoltori.

Le suggestioni classiche di Diodoro, di Claudiano, di Ovidio, di Cicerone sovrastano qui ad ogni passo e trasfigurano quei luoghi.

Come ricondotti alla fresca giovinezza di questa vecchia terra, la vediamo schiudere il suo Olimpo alle divinità greche: e la viva e presente bellezza di questi prati dai colori variatissimi suscita le lontane bellezze della leggenda e del mito.

Per la sua positura, per la sua altezza di quasi mille metri, dall'altipiano di Castrogíovanni si scopre gran parte della Sicilia. Dalla vicinissima Calascibetta alla conica sommità di San Calogero, presso Termini; da Petralia all'antica Agira, fino a Troina che sembra svanire, con molti altri paesi tutti alpestri, secondo la caratteristica dei centri abitati siciliani, nella nebbia azzurrognola che fascia i fianchi poderosi dell'Etna.

Il punto più elevato e scoperto è quello di Lombardia, dov'è il Castello dello stesso nome. Questo luogo prese il nome da una colonia di Lombardi che vi si stabili dopo scacciati i Saraceni.

L'origine del Castello, che sovrastava il tempio di Cerere e poi le rovine di esso, si perde nella più alta antichità. E' certo tuttavia che contro questa fortezza combatterono Siracusani, Punici, Romani; che vi si chiusero i servi ribelli durante la prima guerra servile e che Lucio Pisone si fermò ad assediarla per un anno intero; che i Bizantini vi si ridussero per resistere ai Saraceni e questi per resistere ai Normanni. Guardando da questa altezza si ha un certo sgomento dello spazio. Tutt'intorno è un vastissimo teatro di monti boscosi, di colline coronate da paesi; di macchie di alberi addossate ai massicci casamenti delle masserie ed un groviglio di strade, che si svolgono, si sciolgono, si riallacciano come nastri bianchi le principali; come rigature appena visibili ,le altre secondarie, le quali ora serpeggiano tra due bordi d'erba, ora si incidono sulla nuda schiena dei poggi pietrosi. I monti da questa altezza perdono la loro imponenza, le colline sembrano accavallarsi come onde che si increspino nelle schiume bianche degli abitati; le masserie sembrano piccole navi dalle vele verdi sperdute nella vastità della pianura e le vie segnate dai secolari cammini al richiamo di tanti paesi, sembrano scie scomparenti nel verde. E sulla distesa di tanta terra, la membrata mole dell'Etna si erge come un superbo faro bianco che tutto orienta e trattiene.

Dall'altura di Lombardia che scende a picco, il contadino castrogiovannese cerca con l'occhio vigile la sua contrada, il suo podere, ed ogni giorno si vedono crocchi di agricoltori, specie di vecchi, che fanno la loro calma conversazione di semine, di colture e di raccolti, accennando gravemente la campagna sottostante come dal ponte di una gloriosa nave di roccia turrita che una fatalità millenaria portò ad incagliarsi in questa campagna amenissima.

Un aspetto di rude nobiltà è il carattere di questo paese, che si mostra nelle sue pietre come nei suoi abitanti; nella solida e netta levigatezza delle strade di lava bruna, come nei discreti colori delle vestimenta che qui non hanno lo sgargiante del rosso e del bianco in uso presso molta parte dell'isola.

La donna è preservata dalla rude fatica, né mai vi capiterà di vederla scalza e curva sotto gravi carichi o occupata nel lavoro dei campi. Sotto il tetto, più umile, essa è solo la regina della casa.

Fino a qualche tempo fa tesseva le belle stoffe di lana per i mantelli e per gli abiti, specie dei pastori, o le tele che riempivano le grandi casse di noce delle scorte famigliari; ora fa le faccende, alleva qualche animale da cortile, poi siede sull'uscio ad aspettare che torni il suo uomo, sulla cavalcatura sempre bene aggiustata di carico, che dalle lontane contrade viene a portarle i doni della terra e l'omaggio della sua fatica.

Ma questo paese che fu villeggiatura prediletta di regine, di principi e di imperatori- che fu sede di due accademie, rinomato per la bellezza delle sue donne fin dall'epoca saracena (tanto che, nell'eccidio che segui la presa della città nell'859, le donne furono risparmiate per la loro bellezza ed alcune mandate in omaggio a Bagdad) e che è stato sempre uno dei centri più colti della Sicilia, è rimasto tuttavia fedelissimo alle sue antiche tradizioni agricole e pastorali.

Lontano dai traffici che imbastardiscono la razza e confondono i costumí, esso ha conservato qualche cosa di intatto e di irriducibile che ha resistito ai flussi ed ai richiami di tutte le civiltà.

Sotto ogni Castrogiovannese c'è l'amatore e l'intenditore della campagna. Il giovane nobilesco o dell'alta borghesia terriera, ha una grazia tutta particolare di indossare il bello e il solido abito di campagna, spesso di velluto come quello dei campieri, e cavalcare una bella giumenta e frequentare, munito della lunga verga lucida, le fiere di bestiame e di attrezzi agricoli e pastorali.

Ed anche chi non possiede un palmo di terra, si contenta di guardare pazientemente, da S. Orsola o da Lombardia, quella degli altri, mostrando nei suoi discorsi, dei riferimenti dei suoi pensieri, la ricerca spontanea di un contatto con la terra, anche disinteressato; fatto per giuoco e ricreazione.

Contrapposto a questa classe di cittadini, che è la più numerosa e rappresentativa, c'è il ceto zolfiero dei minatori, proprietari di zolfare imprenditori. Ma lo zolfataio si distingue anche esteriormente, dalla foggia del vestire, in cui si ritrovano certa vivezza di colori e certe galanterie sconosciute alla gente di campagna. E la diversità insiste in tutto il resto.

Lo zolfataío, che riesce alla luce della campagna dopo lunghe ore di lavoro ingrato e spesso pericoloso, sembra volersi prendere una specie di rivincita sul mondo; par voglia violentarne il godimento, mentre il contadino abituato alla calma e continua presenza della natura nel suoi aspetti più felici, sa goderla dolcemente ed anche discretamente. Quello è spendereccio, rumoroso, violento, bestemmiatore; questo parsimonioso, pacifico, religiosissimo.

Dalle cinque porte della città, alcune delle quali conservano ancora nelle parziali merlature diroccate l'antico carattere di fortificazioni, tornano a sera le file dei carretti, tornano i contadini con le loro cavalcature cariche di frutta in estate, di erba fresca e di sulla sanguigna in primavera; di otri ircini odoranti e gocciolanti di mosto nel tempo della vendemmia. E' la campagna che giunge e si fa presente in tutto l'abitato in quell'ora del crepuscolo e le vie prendono il colore delle stagioni.

Il clima vi è molto rigido di inverno, ma allorché a primavera la corona di case dell'altipiano esce dalle nebbie e dalle brume come da un lavacro, e le grondaie si gonfiano dei nidi delle rondini e il passero solitario comincia a mandare dalle vecchie torri dei campanili il suo canto nostalgico alla campagna e i rondoni d'ebano, con il loro stridulo garrito e il volo tagliente, cominciano a volteggiare intorno alle case, non c’è, credo, paese più vivo, più chiaro e più gioioso di questo.

I buoni Castrogiovannesi lasciano allora cautamente i loro indumenti invernali le finestre a lungo serrate si riaprono al sole; i davanzali delle finestre e dei balconi e gli orticelli cominciano ad allegrarsi della flora locale, che raramente manca del tutto nelle case, specie della gente umile: il garofano rosso, la violaciocca, la menta, il basilico, il gelsomino, l'erba cedrina.

Ed ecco cominciare il periodo delle feste religiose, numerosissime, in alcune delle quali non è difficile scorgere reminiscenze degli antichi riti di Cerere ennese.

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