Il Santuario di Papardura - Il Tempio - Il Campanile Enna

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Il Santuario di Papardura - Il Tempio

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IL Santuario
del SS. Crocifisso di Papardura
fra leggenda e storia, arte e devozione
di Rocco Lombardo *

Il Santuario di papardura in una cartolina d'epoca (1913)

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Il Tempio:
vicende costruttive e opere d'arte


Sin dalla prima notizia del rinvenimento dell'antica Immagine e del verificarsi dei primi miracoli, l'afflusso dei fedeli alla grotta fu presto denso e continuo ed anche la loro risposta alle esigenze crescenti legate al decoro del culto, alla magnificenza della festa, all'abbellimento della chiesa fu subito pronta e generosa.
E varia, dal momento che si prese l'abitudine di offrire di tutto, dall'opera manuale al capo di bestiame, dal sacco di legumi e granaglie al gruzzolo di denaro. Tra i primi e più munifici donatori spicca don Carlo Maria Leto barone del Ponte che nel 1659, cioè l'amo stesso della riscoperta, lega ben 24 onze, utilissime ad avviare la costruzione della chiesa, assieme ai tanti più modesti tarì donati dai fedeli meno abbienti ma non per questo meno prodighi, tutti ispirati dallo stesso spirito religioso e accomunati dalle stesse pie istanze, in linea con quel fervore che nei secoli XV, XVI e XVII favorì il sorgere di "un gran numero di chiese dedicate a vari santi tra cui la chiesa del Crocifisso di Papardura, la cui festa è tra le più importanti", come scrive il Falautano, che anzi precisa che "la più caratteristica dopo quella della Patrona è la festa del Crocifisso, la cui chiesa è posta un po' distante dall'abitato, su una rocca che domina una vasta vallata amenissima".
Appunto in questa rocca pittoresca si trovava la grotta.


Essa non era spaziosa e avvicinarvisi non era agevole. La folla accorreva sempre più numerosa, proveniente ormai da ogni dove, e la costruzione di un sacro edificio ampio e rispondente alle necessità del crescente afflusso di fedeli e adeguato alla importanza sacrale assunta dalla veneratissima Immagine, era ormai improcrastinabile.
Ma a sentire padre Giovanni, “ per essere la sudetta grotta nel mezzo della rocca, si fece un gran ponte a dammuso tutto di pezzi intagliati d'altezza palmi 50 circa”.
Difatti, data l'accidentata orografia del luogo, fu necessario costruire un terrapieno che oggi si presenta a forma di “ponte ad unica arcata” e che oltre alla chiesa, alla sacrestia, al dormitorio del curato, all'alloggio dell'eremita [oggi del custode, n.d.a] e qualche altro locale, è capace di reggere 2000 persone".

Anche l'ottocentesco paolotto padre Vincenzo Lo Menzo in merito scrive che trovandosi la Sacra Immagine in un "grande precipitoso pendio dove non potevasi affatto né naturalmente né artificiosamente salire per l'altezza del gran precipizio si pensò allora da quei pii e facoltosi cittadini di erigersi "a pubbliche spese una gran mole ma d'una tale altezza che avesse potuto giungere sino a quel luogo dov'era la ritrovata Immagine. E qui è il caso d'ammirare una delle opere più meravigliose dell'arte imperciocché essendo la Montagna d'una smisurata altezza, purnondimeno, si pensò di fabbricarsi a piè della medesima un forte Bastione, capace a poter sostenere il gran peso d'un Ponte, che quivi s'alzò all'altezza della Montagna dov'era l'Immagine; opere in verità che tirano sopra di sé tutta l'ammirazione di chiunque le osserva; sul motivo che una base di questo gran ponte è poggiata all'anzidetto Bastione ed un'altra alla Montagna sudetta. Quindi su questo magnifico Ponte si fabricò l'anzidetta chiesa [...]".

Gli autori citati insistono sulla eccezionalità della struttura e non c'è dubbio che l'opera, per l'arditezza dell'impianto e i vari ostacoli superati, suscitò nei contemporanei ammirazione per i costruttori e gratitudine per il Crocifisso a cui, non c'era dubbio, si doveva il buon esito della difficile impresa. Ma sia padre Giovanni sia padre Lo Menzo non fanno alcun accenno ai costruttori che si sono avvicendati, con vari compiti, nell'edificazione del tempio e i cui nomi ci vengono invece restituiti dalle carte notarili consultate.
Da esse veniamo a sapere che negli anni immediatamente successivi al ritrovamento della sacra Immagine, avvenuta nel 1657, come ricorda una scritta sull'arco dell'abside (se ben letta e non travisata durante qualche restauro) o 1659 come concordemente si tramanda, mastro Baldassarre Longi e mastro Paolo Polizzi si trovano impegnati a fare muri e "lamie" per la chiesa nuova "conforme disegnerà mastro Giuseppe Russo" mentre mastro Salvatore Stella è intento a elevare un fondaco al limite del vasto sagrato, nucleo iniziale dei diversi alloggi e depositi poi sul posto costruiti pel accogliere i pellegrini e custodire le offerte votive.

A Giuseppe Russo, finora sconosciuto " architetto", in assenza al momento di altre notizie più precise, si deve, dunque, l'ideazione del tempio, costruito a navata unica e dotato di quattro altari laterali, distribuiti due per ogni fiancata, e di un altare maggiore collocato in un'abside che suggestivamente ingloba la grotta contenente su un tratto di parete rocciosa l'Immagine del Crocifisso, incastonata in una custodia lignea dorata che con la sua struttura architettonica occulta alla vista dei fedeli il masso di pietra.
Altri documenti notarili ci informano che nel 1671 i lavori sono ormai giunti al punto delle rifiniture, per le quali mastro Natalino de Asaro e Giuseppe Majuri forniscono cento salme di calcina "da consegnarsi nelle calcare di Grottacalda", che nel 1696, anno da alcuni autori erroneamente considerato come quello di fondazione della chiesa, i massari e "procuratori" possono finalmente impegnarsi a impreziosirla di opere d' arte.



Le decorazioni e le statue in stucco

L'incarico di "stucchiari di rilievo tutta la chiesa del Santissimo Crocifisso magistralmente" è affidato nel 1696 al rinomato artista palermitano Giuseppe Serpotta (1653 1719). Serpotta, per motivi al momento ignoti, non portò a compimento l'opera.
Si affidò la prosecuzione della decorazione a Giovanni Battista Berna da Tusa, che si obbligò a "stucchiare ut dicitur magistralmente e di perfetto magisterio il complimento di tutta la chiesa di detto SS. Crocifisso della manera e forma conforme.
L'artefice tusano non fece rimpiangere Serpotta, tanto che, completata la decorazione, gli fu comissionata l'esecuzione delle dodici statue degli Apostoli che adornano le pareti della navata, poggiate su alti piedistalli che ne accentuano la maestosità. Gli Apostoli sono raffigurati secondo due modelli ormai consolidati, uno rispondente al tipo giovanile, imberbe e capelluto; l'altro a quello senile, barbuto e talvolta calvo.

A Papardura il Berna, collocandoli addossati alle paraste che scandiscono le pareti del tempio, raffigurò gli Apostoli in atteggiamenti diversi e a grandezza poco più che naturale, per lo più privi dei tradizionali oggetti simbolici.  Avvolte in vesti morbidamente drappeggiate, le statue sono modellate con effetti plastici gradevoli che esaltano l'austerità dell'espressione e la severità dei gesti con cui ci invitano dagli alti piedistalli a rivolgere lo sguardo alla venerata Immagine del Crocifisso.
E se pure questa in origine era facilitata da qualche scritta oggi scomparsa, il popolo orante, variegato nelle sue necessità fisiche e spirituali ma unanimamente fiducioso nella misericordia divina, poco si curava di questo dettaglio, interessato a rivolgere le sue devote attenzioni alla sacra Immagine la cui scoperta, accompagnata da prodigi, aveva spronato la costruzione del tempio, ideato come materializzazione dei cinque Misteri Dolorosi del Rosario col suo affresco absidale della Crocifissione sovrastante l'altare maggiore e le grandi tele esposte sui quattro altari laterali evocanti Gesù orante nell'orto, Gesù coronato di spine e deriso, Gesù flagellato alla colonna, Gesù caduto sotto la croce, raffigurazioni dei momenti più significativi della Passione, ribaditi nei corrispondenti paliotti di cuoio dipinti e negli affreschi posti sul cornicione attorniati da stucchi.

Le immagini contenute nel tratto di rupe affrescato divenute molto labili sono state restaurate e ridate alla vista dei fedeli. L'affresco riproduce Gesù, la Madonna e san Giovanni,  e rappresentò sin dal momento del prodigioso ritrovamento l' oggetto della venerazione dei fedeli ed ebbe riservato di conseguenza uno spazio sacrale privilegiato nel tempio che si andò costruendo. Il muro di roccia divenne la parete di fondo del suo vano absidale e all' immagine incastonata si assegnò la funzione altrove svolta dalla pale d' altare, dalle ancone marmoree, dalle statue, e qui divenuta il punto culminante, cioè la Crocifissione.

L'altare sottostante fu dotato verso il 1742 di un fastoso paliotto d'argento, eseguito dall'artista messinese Pietro Donia, che sbalza e cesella uno scenografico portico adorno di colonnine tortili sorreggenti cinque arcate a tutto sesto , di cui la centrale  più ampia, su cui si susseguono come osserva Maria Clara Ruggeri Tricoli, che definisce "stupendo" il manufatto, "stemmi in chiave e, nei pennacchi, ovali sormontati da teste di angioletti e guarniti da ghirlande: tutti a incorniciare i simboli della Passione fra i quali un interessante "velo della Veronica". Nei vani che un sapiente gioco prospettico rende illusoriamente profondi e l'accorta lavorazione del metallo pieni di bagliori riverberantisi sul fondale evocante, racchiusa tra mura e torri merlate, Gerusalemme, e decorato da due simmetriche fontane collocate nel secondo e quarto arco eseguite "a conche sovrapposte che gettano acqua da mascheroni", sono ambientate le stesse scene della Passione riprodotte nelle tele e nei paliotti degli altari, nonché evocate nei dipinti murali racchiusi tra comici di stucco collocati sopra il cornicione.

Le pareti che fiancheggiano la dorata custodia lignea del Guglielmaci presentano decorazioni in stucco: putti con martello, frecce, tenaglie o sorreggenti un panneggio; angeli dalle grandi ali che ostentano uno il velo della Veronica e l'altro una croce e un calice; tendaggi di stucco, colorati di rosso, con ingenuo effetto trompe-l'oeil; due motivi decorativi raffiguranti tre dadi (a sinistra, alludenti al sorteggio della tunica di Gesù) e una borsa (a destra, richiamante il tradimento di Giuda per trenta denari).

La volta, che tra decorazioni di stucco presenta tre dipinti murali raffiguranti una croce, una fontana, un albero), è delimitata dall' arco maggiore che al centro mostra la scritta "ELEGI LOCUM ISTUM MIHI" ("Ho scelto questo luogo per me") e la data "DIE XVII APRILIS MDCLVII" ("17 aprile 1657").
Esse richiamano l' evento prodigioso e il giorno del ritrovamento dell'Immagine miracolosa, che nell'indicazione anticipa pertanto di due anni il ritrovamento della sacra Immagine, fissato tradizionalmente al 1659, che verosimilmente indica invece l' anno in cui si cominciò a edificare la chiesa.
Pochi arredi liturgici (sgabelli, sedia dorata tappezzata di velluto rosso ricamato, leggìo...) occupano il raccolto ambiente che i bagliori argentei del paliotto e i riflessi dorati della custodia lignea rendono sfolgorante.




Gli altari laterali:
i quadri, i paliotti, gli affreschi


Gli altari si susseguono due per lato sulle pareti della  navata, inframmezzati da due dirimpettai "letterini" lignei sostenuti da colonne di finto marmo e destinati ai musici e al coro.
Decorati dagli stucchi eseguiti per la maggior parte dal Berna che, attingendo ad un repertorio diffuso tra gli artisti del tempo, realizzò con onesto mestiere e gradevole effetto girali, mascheroni, putti, ghirlande..., i quattro altari accolgono altrettanti quadri che, completati dalla Crocifissione dipinta rinvenuta sulla roccia e doverosamente ospitata sull' altare maggiore, rappresentano le Storie della Passione di Gesù.

Nel santuario di Papardura ad ogni Mistero Doloroso si dedica una apposita "cappella" dove ciascun episodio della Passione di Cristo è rappresentato nel quadro ospitato e nel paliotto di cuoio che copre il fronte dell'altare e richiamato nel dipinto murale che, incorniciato da motivi decorativi in stucco, ne sovrasta il grande arco.
Questa "insistenza" palesa nei "massari" e nel clero che avevano cura del tempio la volontà di renderlo la sede esclusiva dell'intero grandioso Mistero della Passione di Cristo, esaltandola e celebrandola come l'ineludibile strumento della nostra salvezza spirituale.
Ogni devoto che ne varcava la soglia trovava consolazione alle sue angustie e tribolazioni terrene e sostegno ai suoi cedimenti morali nella visione di scene altamente drammatiche, volutamente impregnate di carico patetismo e connotate di crudo realismo.


Cristo orante nell'orto
Primo altare a sinistra


E' rappresentato l'episodio evangelico dell'orazione di Cristo nell'orto del Getsemani.
La scena riesce a catturare l'attenzione del fedele, coinvolgendolo con immediatezza nell'atmosfera di sconsolato abbandono in cui il dramma di Cristo si sta consumando nella più triste solitudine. L'artista raffigura in basso gli apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni, immersi in un sonno che impedisce la veglia che Gesù aveva richiesto con tanta fiducia e che colpevolmente li rende incuranti della sua afflizione, mitigata dall'apparizione dell'Angelo, di cui dei tre evangelisti solo Luca (22,43) parla, raffigurato col calice e con la croce.

Cristo coronato di spine e deriso
Secondo altare a sinistra


La scena evangelica della coronazione di spine raffigurata nel quadro posto sul secondo altare sinistro è ampliata nell'episodio della successiva derisione subita da Gesù e comprende velatamente anche il tema dell'Ecce Homo che tanti artisti avevano trattato isolatamente raggiungendo vertici di struggente suggestione e alta intensità emotiva.
Il pittore, al momento anonimo ma che Salvatore Morgana "per le linee, per le fisionomie, per la precisa composizione dei colori..." ritiene che sia "illustre", rappresenta l'azione nel suo svolgimento, reso concitato dalla gestualità agitata e scomposta che connota i personaggi che con ghigni beffardi attorniano Cristo, raffigurato con una espressione afflitta e rassegnata, che suscita per la sua docilità non solo pietà ma pure compassione e tenerezza.

Cristo flagellato alla colonna
Primo altare a destra


Il tema della "Flagellazione di Cristo" è stato svolto da innumerevoli artisti sia includendolo in un ciclo riguardante la Passione nel suo svolgimento sia trattandolo singolarmente per raffigurare l'Uomo dei dolori, che li sopporta per la salvezza dell'umanità.

Nell'ambito dell'insegnamento dottrinale diffuso dalla Chiesa impegnata nella Controriforma a fronteggiare i pericoli del Luteranesimo e a moralizzare la sua stessa condotta, il soggetto della Flagellazione si prestava con immediatezza efficace a commuovere i fedeli, richiamandoli all'osservanza dei precetti evangelici e all'ubbidienza alle disposizioni ecclesiastiche.

Cristo caduto sotto la croce
Secondo altare a destra


Il quadro che rappresenta Cristo caduto sotto la croce nella salita al Calvario è posto sul secondo altare destro ed è l'unico di cui si conosca l' autore dal momento che alla base contiene la firma di Benedetto Candrilli che, accompagnadola dalla data 1681, ci consente di annoverare la tela fra le più antiche presenti nel tempio. Il tema che il pittore sviluppa rientra nel consueto tradizionale ciclo dei Misteri Dolorosi, dimostrandoci così che i "massari" cui il tempio era affidato, guidati certo anche dal clero, ebbero sin dall'inizio ben chiaro il programma iconografico che intendevano realizzare all'interno della chiesa, che aveva la caratteristiche di un tipico "oratorio" dove si riunivano per preghiere comunitarie ma che ambivano a far diventare un luogo di culto esclusivamente dedicato alla Passione di Cristo, degno di possedere opere d'arte decorosissime che senon potevano essere commissionate ad artisti celebri almeno si facevano eseguire da loro abili e capaci emulatori. L'opera che il Candrilli esegue è, difatti, una copia del famoso Spasimo di Sicilia, come venne poi chiamata la Caduta sotto la croce che Raffaello aveva realizzato tra il 1515 e il 1517 per la chiesa palermitana di Santa Maria dello Spasimo, aiutato da allievi e ispirato ad una incisione di Albrecht Diirer.

Paliotto in cuoio posto dopo il recentissimo restauro sotto il coro

L'OPEROSITA' SECOLARE DEI PROCURATORI

Il Guglielmaci  è l' autore del soffitto ligneo a cassettoni", che "fu fatto ristrutturare nel 1898 dai signori P. Lo Manto, P. Coppola, P. Fazzi, M. Timpanaro" mentre era rettore il Can. Michelangelo Savoca e che si presenta, di fronte agli elaborati esempi che in città potevano offrire i tetti lignei del Duomo e della chiesa del SS. Salvatore sontuosi nei loro intagli, di una pacata e serena gradevolezza, perfettamente intonata all'austerita del tempio e raggiunta attraverso una sobria intelaiatura di rigorose forme geometriche esagonali e romboidali raccordate con fascinosa inventiva dalla sagoma di una Croce che si incunea nei motivi geometrici con naturalezza a sottolineare ancora una volta il peculiare culto cui il tempio era destinato.


Il Casciarizzo

Per conservare i paramenti sacri ed altri arredi liturgici i "massari" provvedono nel corso del `700 a dotare la sacrestia di un "casciarizzo" in legno di noce ricco di decori ad intarsio ascrivibile a maestranze locali che appunto nel Guglielmaci trovavano il più valido e rappresentativo esponente e che si ispirarono all'analogo arredo presente nel convento di Monte Salvo.
Il casserizio , destinato a contenere oggetti liturgici e paramenti sacri riveste un'intera parete per una estensione di quasi dodici metri quadrati ed "ha un basamento a portelle e alzata ad armadio, cioè è costituito da una parte superiore arretrata rispetto a quella sottostante, [...] chiusure costituite da semplici sportelli e l'insieme è intonato ad una sobria eleganza architettonica ed eccezionalmente risulta arricchito di tarsie. Gli sportelli di forma rettangolare sono decorati con modanature a specchiatura riccamente intarsiati"


Nel 1784 lo scultore catanese Martino Giuffrida fornisce un fonte marmoreo, costato, compreso il trasporto dalla città etnea, undici onze e tredici tarì. Nel frattempo numerosi sono gli oggetti sacri in argento fatti eseguire, elencati in un inventario del 1785, che annota cinque lampieri, sette calici, "un tosello con sua carta gloria", due candelieri, un incensiere, un reliquiario "con ingasto d'oro", oltre a diversi altri oggetti liturgici.

Da un notaio antico,  preciso e scrupoloso annotatore di fatti di cronaca, il seicentesco Vincenzo Battalionti, vissuto proprio al tempo del rinvenimento del Crocifisso, dobbiamo due notizie annotate con un senso di stupore sui fogli ingialliti dei suoi registri. La prima è una conferma, attendibile perchè non si collega alla tradizione ma scaturisce da dirette esperienze, dei fatti prodigiosi che si verificavano presso la grotta di Papardura: L'Immagine del Santissimo Crocifisso - egli scrive - in una grotta di Papardura ha fatto grandissimi miracoli e si fece una processione grandissima e devotissima a Papardura con concorso mirabile di spiritari, quali sonarno, e di forastieri". Nelle scarne righe è sintetizzata l'essenza del futuro di Papardura, legato ad una devozione intensa e ad una festa celebre per la numerosa partecipazione.

L'altra notizia riguarda una delle processioni penitenziali e propiziatorie che subito invalse l'abitudine di fare alla grotta di Papardura:
"A dì 9 settembre XIV Indizione vennero dalla terra di Gangi allo Santissimo Crocifisso a Papardura per recuperata sanità del Signor Principe Valguarnera 360 persone fra homini e donne a piedi li quali uscirono in processione dalla Madrice e fra le altre vi erano 260 persone quali si battiano a sangue".

Alla sbigottita constatazione del notaio fa eco quella compiaciuta di padre Giovanni che assiste ancora un secolo dopo a consimili manifestazioni devozionali:
"Oh! quanti si facevano confessioni generali; oh! quanti sono stati per molto tempo con la faccia buttata per terra coll'occhi lagrimanti innanti il Santissimo Crocifisso, e chi in sagristia, e perchè la cosa principale consiste nella devozione di confessioni e comunioni pertanto per molti giorni assistono in detta chiesa da circa 15 confessori oltre a quelli nella Chiesa Madrice, Parrocchie, Conventi, e più del Giovedì Santo nelle medeme chiese il concorso".

Nella "Vera e distinta relatione del Santissimo Crocifisso sotto titolo dell'Abbandonato" venerato nella Chiesa di Papardura inserita nella sua Storia manoscritta, il frate cappuccino non trascura di annotare con compiacimento che la devozione al SS. Crocifisso dall'epoca del rinvenimento della sacra Immagine ai suoi tempi si era mantenuta viva, visto che "questa festa e devotione non s'have deperso in niun conto, in nessuna maniera sempre mantenendosi con quel primiero fervore di spirito di quando si ritrovò il Santissimo Crocifisso non cessando le penitenze e venuta delli regnicoli ogn'anno nè meno cessa l'Eterno Dio fatto huomo e crocifisso per noi in questo luogo li miracoli e le grazie domandateli dalli suoi divoti e per lospazio da circa ottant'anni in circa sempre have andato avanzando le festa e li giogali della chiesa e la devotione ancora con giubilo grandissimo di tutti li forastieri e paesani".

Egli addebita il lungo perdurare della devozione alla molteplicità e straordinarietà dei miracoli che negli anni si sono via via verificati e, per la maggior edificazione dei devoti, confessa di sentirsi in obbligo di "fare conoscere quanto s'have degnato il Santissimo Crocifisso qui in Castrogiovanni a beneficio sì dell'anima come del corpo a tutti li suoi devoti paesani e regnicoli".

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* Tratto da "Il Santuario del SS.Crocifisso di Papardura, fra leggenda e storia, arte e devozione"  di Rocco Lombardo,
pubblicato a cura della Deputazione dei Massari del Santuario di Papardura, ed. Fontana 2001.

Foto di Paolo Mingrino e  Federico Emma

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