Il Santuario di Papardura - Usanze devozionali - Il Campanile Enna

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Il Santuario di Papardura - Usanze devozionali

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IL Santuario
del SS. Crocifisso di Papardura
fra leggenda e storia, arte e devozione
di Rocco Lombardo *

Il Santuario di papardura in una cartolina d'epoca (1913)

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USANZE DEVOZIONALI
SCOMPARSA, EVOLUZIONE E PERSISTENZA


La distribuzione delle "piccole collorelle biscottate", ovvero "cudduredda" propiziatrici, è l'unica usanza rimasta tra quelle che distinguevano la festa di Papardura.
Difatti Enrico Sinicropi, che scrive nel 1958, ricorda pure "che da coloro che sono prescelti a questo culto" del Crocifisso, cioè "procuratori e massari", "si scanna una giovenca e nel mentre la carne serve loro da banchetto, la testa viene riservata al parroco di San Cataldo di cui quella chiesetta è filiale". E nel soggiungere che "tale consuetudine, però, si è spenta da circa un ottantennio", accenna ad altre tradizioni ai suoi tempi estinte da quasi mezzo secolo, come le "corse di ragazzi, asini, giumente e cavalli, muli, bardotti e buoi, con palli di seta di vario colore, che venivano conferiti in premio
i vincitori", o come l'usanza di avvicinarsi al pozzo "attiguo alla sacrestia [...] il quale veniva riempito d'acqua che serviva, mediante apposito rubinetto, per sciacquarsi

la bocca [a] tutti coloro che si erano cibati della S. Comunione" o ancora quella di farsi dare "dai procuratori, che siedono con tavoli sotto gli archi dell'atrio della Chiesa, mediante obolo", non solo la caratteristica "cudduredda" ma pure "la Immagine del Crocifisso stampata ed una pietruzza, ricordanti il fatto antichissimo della scoperta della Immagine del Crocifisso alla pietra".


Come lo stesso Sinicropi, sulla scorta di Paolo Vetri, non trascura di rilevare, alcune di queste usanze sono retaggio di ritualità risalenti all'epoca classica. Il Vetri, difatti, pur ammettendo che le più antiche offerte votive destinate a Cerere consistevano nei primi frutti della terra, confortato da diverse monete antiche, per lui "allusive al sacrificio colla testa della Cerere da una parte e dall'altra il capo reciso della vacca o bue", ritiene che la pagana "cerimonia rivestita di tutte le antiche forme, passata nel nuovo culto, si pratica ancora; difatti il pio bifolco promette il ricolmo farro, lo porta in trionfo e lo tributa al Crocifisso detto Abbandonato, la cui festa si solennizza in ogni quattordici settembre nel proprio tempio di Papardura; e da coloro che sono prescelti a questo culto si scanna la giovenca e nel mentre la carne serve loro da banchetto, la testa viene riserbata al parroco di San Cataldo, di cui quella chiesa è filiale".

Salvatore Morgana in merito è di diverso avviso, riferendo, senza citare la fonte, l'origine di quest'ultima usanza a un fatto prodigioso avvenuto quando "[...] un giorno dell'anno 1699 ad un massaro, che non ho potuto identificare, cadde una vitella da un sentiero in un burrone. Nella caduta, la vitella ebbe spezzati gli ossi del collo. Il massaro invocò la grazia del Crocifisso e volle che il Cappellano della Chiesa, che era Parroco di S. Cataldo, venisse nel burrone, sotto la rupe di Papardura per benedire la giovenca agevolando così il compimento della grazia. Il parroco andò e dopo la benedizione la giovenca, da sola, si alzò e riprese la sua strada come se nulla fosse stato. Per la festa, il massaro donò alla Chiesa una vitella per essere cucinata e mangiata dai procuratori e dai pellegrini più poveri, con l'obbligo di inviare al Parroco di S. Cataldo, cappellano della Chiesa di Papardura, la testa e il collo dell'animale sino all' attaccatura con il corpo. Questa usanza non fu più trascurata negli anni seguenti".

È certamente nel giusto il Vetri, giacché molte ritualità cristiane, perpetuatesi nei secoli in un' altalena di accettazione e avversione, hanno radici nelle cerimonie pagane, come "i sepolcri" del Giovedì Santo, che richiamano i giardini di Adone; la benedizione delle candele, ovvero Candelora, festa della Purificazione della Vergine (e della Presentazione di Gesù al Tempio) che cade il 2 febbraio, mese che Roma dedicava alle purificazioni a Iuno Februata o Sospita (Salvatrice) con l'accendere fiaccole per le vie della città; la preparazione nel giorno di Santa Lucia della cuccìa , "piatto di grano intero bollito [...] che è probabilmente ciò che rimane dei primitivi banchetti consumati sull'altare di Cerere"; la tipica esclamazione "Cori, Cori! ", considerata retaggio di invocazione rivolta a Proserpina, in greco Persefone, cioè Kore, vergine per eccellenza.

Spesso però l'elemento pagano, sopito ma non estirpato in quanto espressione di esigenze primordiali connaturate, riemergeva e per essere accolto e accettato se ne dava una spiegazione in chiave cristiana, come mostra la leggenda della vitella riferita dal Morgana e come in maniera più evidente dimostra la "riesumazione" dell'uso di distribuire le collorelle, collegato allo scampato pericolo delle cavallette apparse nel 1741, ma in realtà ben radicato nel mondo classico.

La loro antica origine l'aveva intravista già il Vetri", che convincentemente le aveva assimilate ai milli, focacce rituali distribuite nelle feste di Cerere. L'ottocentesco autore, rifacendosi ad Eraclide Siracusano, ricorda che nelle cerimonie in onore di quella dea si confezionavano "placente o focacce in forma di pube donnesco, che per tutta la Sicilia si chiamavano milli " di cui in seguito "si fece un talismano. Per principio di religione uomini e donne non aveano a rossore di portarlo palesemente. Tuttora l'indossa una mano chiusa in guisa che lo rappresenti e se ne imita la forma negli oggetti che si appendono al collo, e tuttora si fanno delle placenti (sic), che si dicono milliddi, ma sparsi di seme di papavero senza attaccarvi senso disgustoso. Per cui quest'uso perché tramandato sino a noi non è da mettersi in dubbio".

Le collorelle di oggi non sono rivestite di semi di papavero, forse per eliminare un nesso con Cerere a cui il rosso fiore era dedicato, ma sono un impasto semplicissimo di farina ed acqua, privo perfino di lievito, a memoria e imitazione del pane àzzimo ricordato dai Vangeli.
Preparate a cura dei "massari" preposti alla gestione del Santuario coadiuvati alacremente dalle donne di famiglia e dai fedeli, che per devota tradizione ne confezionano migliaia (qualche volta pari a ben 600 chilogrammi) nei giorni precedenti la festa, chi le riceve le conserva come "cosa santa", attribuendo loro, cioè, quella condizione sacrale con cui "il popolo siciliano considera anche molti pani e dolci festivi, la cui forma pare abbia origine greca", come pure Giuseppe Cocchiara tiene a precisare.

L'usanza da Enrico Sinicropi è ricordata così: "Nella solennità di Nostro Signore di Papardura tradizionalmente, sotto gli archi, dirimpetto alla Chiesa, i procuratori danno ai fedeli che, dietro libera mercede acquistano, l' immagine stampata del santo, una piccola "cuddura" (un pezzetto, cioè, di pane formato da un intreccio cilindrico del diametro di mezzo centimetro a forma di delta greca) rassembrante oggetti mitici (il Sacro Millo) [...]".
Un altra pratica devozionale di cui resta ancora traccia nell'esercizio ma di più nel ricordo di qualche anziana devota era la recita de "U Rusariu de tri Cruci ", eseguita una sola volta all'anno e precisamente il 3 maggio, giorno della Invenzione della Santa Croce (di cui il 14 settembre invece si celebra l'Esaltazione), con un rituale particolare, che consisteva nel mettere in un sacchetto 20 ceci ed estrarne uno, fino al loro esaurimento, accompagnando il gesto con la recita del Rosario, chiuso da un "Gloria" e da dieci invocazioni "Gesù", e ripetuta cinque volte, arrivando così alle mille invocazioni a "Gesù" necessarie alla difesa da ogni tentazione diabolica e alla conseguente preservazione dall' inferno.

Questa preghiera ripetitiva faceva parte di un repertorio di preci, invocazioni, suppliche, orazioni di cui rimane memoria anche nelle pagine di ricercatori e studiosi, testimonianza di una sentita tradizione che conferma l’'intenso culto che si tributava, e tuttora si tributa, al veneratissimo Crocifisso di Papardura. A Cui, quasi a confermare ancora una volta tramite una pia pratica il nesso col mondo agricolo, Giuseppe Cocchiara ricorda che era collegata una tradizione che trovava nel grano il suo fulcro. Lo studioso riferisce: "Le spighe lavorate e intrecciate in modo da formare tre chiodi di Gesù ad Enna sono offerte al Crocifisso detto Abbandonato" avvertendoci che un esemplare è custodito a Palermo nel Museo Etnografico Siciliano, intitolato al Pitrè, nella sezione dedicata a "magia e religione".




Nelle foto i vari momenti della festa:

i Massari che si avviano alla raccolta con i muli bardati e il ciarammiddaru,

le varie fasi della preparazione dei "Cuddureddi"


(le foto risalgono ai primi anni '80 del secolo scorso (foto F.Emma) )

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* Tratto da "Il Santuario del SS.Crocifisso di Papardura, fra leggenda e storia, arte e devozione"  di Rocco Lombardo,
pubblicato a cura della Deputazione dei Massari del Santuario di Papardura, ed. Fontana 2001.

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