Il Santuario di Papardura - luogo, nome, leggenda, storia
IL Santuario
del SS. Crocifisso di Papardura
fra leggenda e storia, arte e devozione
di Rocco Lombardo *
Il Santuario di papardura in una cartolina d'epoca (1913)
Da secoli la Deputazione dei Massari, o Procuratori, ha la cura del tempio intitolato al "Crocifisso Abbandonato" e delle solennità liturgiche e ritualità tradizionali svolte in suo onore, e provvede a mantenere vivi gli aspetti devozionali più caratteristici e a salvaguardare col più dignitoso decoro le sacre supellettili e le opere artistiche che la chiesa conserva.
Nel 2001 la Deputazione affidò a Rocco Lombardo il compito di ricostruire il patrimonio di storia e leggenda e devozione del santuario per diffonderne la sua conoscenza e divulgazione.
Da questo nacque un volume che Rocco Lombardo, che ringraziamo, ha messo a disposizione dei lettori del "Campanile" .
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IL LUOGO E IL NOME
La contrada ennese di Papardura si trova a sud-ovest della città, proprio ai margini di quel tratto di agglomerato urbano che nell'ultimo cinquantennio ha visto notevolmente espandere i suoi confini a scapito delle campagne più vicine. Si stende per un lungo raggio, racchiudendo numerosi declivi ombreggiati da alberi di specie diversa e rivestiti da una varia vegetazione spontanea che coi suoi folti cespugli ricopre balze dirupate e ripide pareti di roccia qua e là sforacchiata da grotte o punteggiata di scoscesi anfratti. La perenne copiosità di acque che in passato distingueva l'alta Enna destando vivo stupore negli antichi scrittori e sfibrando gli assalitori di turno, qui è ancor più evidente per il gran numero di fonti e rigagnoli e pare che sia stata all'origine del nome dato a questo sito così ameno: Papardura, cioè "roccia sudante", secondo un vocabolo "d'origine persiana".
Questa ipotesi etimologica, favorita dalle suggestioni evocate dai richiami ad un Oriente misterioso e lussureggiante, che al loro arrivo nel secolo IX gli Arabi, nostalgici di oasi e palmizi, cercarono di ricreare in terra di Sicilia, ha finito, pur non sostenuta da puntuali riscontri linguistici, per consolidarsi e prevalere sull'altra, certo già di primo acchito fantasiosa e storicamente inattendibile, che collega l'insolito nome alla improbabile venuta ad Enna di un Papa, che entrandovi per la porta allora esistente, da lì cominciò la visita alla città, spargendo benedizioni sul suo cammino.
C'è pure chi ricollega il nome a episodi meno pii ed idilliaci, come la temeraria impresa del bizantino Eufemio che in questi pressi nell'anno 828 ne sperimentò il tragico imprevedibile epilogo con un eccidio favorito dal tradimento dei suoi connazionali, che a lui spensero per sempre il sogno di predominio e agli arabi del suo seguito fecero rimandare la conquista di Enna di oltre sessanta anni.
Si crede che la memoria di quel truce avvenimento sia rimasta così viva nei futuri dominatori saraceni, che chia-marono il posto "bab-aurra", luogo (o porta) della disfatta, a ricordo e monito dell'infelice tentativo di conquista di Enna legato ad Eufemio.
Ma anche se suggestiva questa ipotesi non appare accettabile sia perché legata ad un episodio che alla fin fine aveva inferto un duro colpo all'orgoglio arabo sia perché meno convincente rispetto ad altre che basano l'origine del nome su un più probabile "bab-ar-dur", toponimo pure d'origine saracena che, prendendo spunto dalle condizioni geomorfologiche del luogo, può significare "porta o valico delle abitazioni (grotte o tende) o dei gorghi d'acqua oppure luogo della via a gradini".
Nel 1824 il canonico ennese Giuseppe Alessi darà del Santuario questa descrizione: "Dal lato di mezzogiorno scaturisce una sorgiva sì copiosa, che somministra l'acqua ad un gran beveratoio, ad un piccolo mulino, ai sottoposti orti, ed in vari punti lì sgorgano perenni dolci ruscelli: onde il luogo è reso ameno dalla natura e dall'arte, che cospirano entrambe a render le acque perenni. Nella roccia sottoposta al beveratoio vi si osservano delle stalagmiti ramificate in forma di muschi, di foglia e di altre svariate figure…E’ detto questo luogo Papardura”Papardura: nome che risveglia echi di sopite favelle saracene; sito che offre l'incanto della natura e lo splendore dell' arte; luogo dove leggenda e storia trovano radici profonde e inestricabili; culla di tradizioni che perpetuano antichissimi miti e secolari ritualità; dimora del Sacro che offre la sospirata consolazione e l'anelato rifugio a tutte quelle angustie e tribolazioni che procurano all'uomo uno stato quasi perenne di inquietudine e sofferenza.
LEGGENDA E STORIA
Come succede per altri celebri santuari di Sicilia, anche per quello di Papardura l'origine è legata a pie leggende che, tramandate all'inizio oralmente e diffuse e mantenute vive per un secolo, a metà `700 furono raccolte dal cappuccino Padre Giovanni nella sua ancora inedita Storia veridica dell'Inespugnabile città di Enna.
Frate Giovanni ci racconta: "detta Figura dipinta nella medesima rocca di questa grotta haverla fatto dipingere un devoto Castrogiovannese nominato Ascanio lo Furco per singolare sua devozione nell'anno di Nostra Salute cinquecento e quarantasei si che al presente anno 1757 tiene d'antichità mille duecentocinquantaquattro [anni]".
Senza accorgersi del computo errato, prosegue che a causa della venuta: "de Saraceni in Castrogiovanni li quali impedirono il culto divino e tutto il rito della chiesa e festività de' santi solo ammettendo la festa della dea Cerere, per conseguenza infallibile questa grotta fu in abandono da tutti per insino che diventò luogo di spurcizie e di lordure arrivando a seppellire detta Figura sotto le medeme; e nostro Signor Dio non potendo sopportar questo abandonamento in mezzo a sì lordure s'have voluto lamentare con alcuni dicendoci m'hanno abandonato [...]".
Per dare maggiore credito alla straordinarietà del rinvenimento della sacra Immagine, verificatosi nel 1659 (anticipata al 1657 da una scritta esistente nel tempio), il frate cappuccino prende l'avvio da almeno mezzo secolo prima, quando "nell'anno di Nostra Salute 1600 incirca nel piano di S. Francesco d'Assisi sotto li Casi Rubbera vi era un nobilissimo scrittore dove vi teneva scuola un Venerando sacerdote uomo dabbene, di vita esemplare e dotto ancora".
Molto verosimilmente si trattava del celebre umanista e storico netino Vincenzo Littara che sul finire del `500 dimorava a Enna intento a scrivere la storia della città per incarico di Vincenzo Petroso barone di Bumbunetto e a dare lezioni di retorica e grammatica ai rampolli delle più illustri famiglie locali.
A questo "nobilissimo scrittore", rimasto ad ogni modo ignoto, toccò la ventura di essere, senza mai saperlo e in anticipo di decenni, uno dei protagonisti di un evento prodigioso, dal momento che "una notte ebbe questo santo sacerdote una visione dalla quale non ne potte cavare [e] nemmeno significare che cosa fosse il mistero. La mattina poi venuti tutti li discepoli alla scuola così li favellò e li disse: "Figli miei diletti, stampatevi nel vostro cuore e sempre vi sia alla memoria tutto quanto io vi racconterò. Si che ho veduto una grandissima visione: viddi come dalla nostra chiesa madre usciva una grandissima processione e tutti portando torci accesi la quale processione s'incamminò per la strada maestra per insino alla Porta di Papardura seu di papa Urbano ma non usciva la porta e lì sparivano nè si vedevano
più. Ma io vi dico così e faccio questa riflessione ed argomento: senz'altro in questo luogo un giorno si vedrà un qualche gran portento, pertanto sempre vi sia a memoria tutto questo che vi ho raccontato e detto e come poi colla grazia del Signore sarete grandi ed avanzati in età raccontatelo alli vostri successori".
La premonizione del venerando sacerdote si avverò quasi sessant'anni dopo in occasione del verificarsi di ripetuti eventi straordinari legati ad una grotta situata a Papardura che, fra l'altro, offrirono l'occasione ad uno dei suoi antichi discepoli, un padre religioso seguace di san Francesco di Paola, forse unico e innominato superstite della antica numerosa scolaresca, di rivelare la "profezia" del maestro, che veniva a dare forza e consistenza ai recenti prodigi che si dicevano accaduti nei pressi della porta di Papardura. Difatti, stando al racconto di padre Giovanni de' Cappuccini, molti asserivano che "di ritorno dalla campagna in tempo di notte alla città per l'entrata di detta Porta di Urbano da lontano vedevano un lume in una grotta nel mezzo della rocca e quando erano arrivati ivi vicini non vedevano più lume". Tra costoro c'era pure "un ortolano nominato Drago il quale coltivava un orto sotto la suddetta rocca; quando qualche volta si tratteneva nel pagliaro o capanna di detto orto la notte vedeva un lume in una grotta nella rocca e alcune volte ci veniva la volontà a andare a vicinarsi alla sopradetta grotta per vedere dove fosse quel lume ed avvicinatosi spariva quel lume né mai si potte sapere quale fosse la grotta".
Il racconto di un tale inspiegabile fenomeno passava di bocca in bocca meravigliando tutti fino a quando "nell'anno di Nostro Signore 1659 l'Eterno Dio si compiacque palesarsi ad una monica terziaria delli R.R.P.P. Reformati zoccolanti di san Francesco del convento di Monte Salvo comparendoci il Crocifisso e così parlandoci li disse: "Fammi annettare e poliziare la grotta la quale si ritrova nella metà della rocca all'entrata di Papardura o Papa Urbano la quale si scende per una scala fatta nell'istessa rocca la quale è viale e facci accomodare la lampa che vi è l'imagini mia quando fui crocifisso e rivela che m'hanno abandonato ed avisa a tutti che in detta grotta da me si faranno molte grazie."
Questa monaca è rimasta ignota perché "non vuolse parlare che a lei fosse fatta questa revelazione", forse per timore di non essere creduta o, peggio, di incorrere in censure ecclesiastiche. Ma tenere un segreto così straordinario era per lei quasi impossibile per cui "si confidò con una donna dabbene nominata Angela la Guzza quale faceva ufficio di lavandara e che continuamente ogni giorno passava innanzi a detta grotta con domandare elemosina a tutti per il mantenimento de lampi accesi continuamente con dire a tutti che [il Crocifisso] era abandonato e che nella grotta il santissimo Crocifisso farà molte grazie".
Fu così, come era prevedibile, che "tra pochi giorni nella Città il tutto si pubblicò e tutto il popolo nobile ed ignobile, huomini e donne, tutti correrrevano a visitare il Santissimo Crocifisso con offerirci molte elemosine". Come era altrettanto prevedibile, l' afflusso era tale che siccome "la scala per dove si andava alla detta grotta era stretta, tutto il popolo come anche tutti li maestri s'affatigavano fare altra nuova strada larga per poterci andare ogn' uno senza pericolo, si come pure fra qualchi giorni si pubblicò per tutto il Regno le grandissime e maravigliose grazie e miracoli li quali faceva il Santissimo Crocifisso in questa grotta poiché non veniva persona la quale non era consolata di ogni infermità."
Il Signore aveva mantenuta la promessa fatta alla monaca francescana, ma fatta anche a tutti allorché durante il suo soggiorno terreno andava ripetendo "Venite ad me vos qui laboratis et onerati estis et ego reficiam vos”.
Così andando alla grotta di Papardura "oh! quanti ciechi hebbero la vista, quanti sordi l'udito, quanti muti la loquela, quanti paralitici lasciarono li bastoni, quanti zoppi raddrizzati, quanti infermi abandonati dalli medici untandosi con Voglio delle lampadi e pietre della grotta del santissimo Crocifisso ricevevano la pristina salute!"
Padre Giovanni, ormai preso dall'enfasi, prosegue il suo racconto soffermandosi sulle guarigioni degli indemoniati e degli ossessi, sul gran numero dei miracoli, sul continuo accorrere di gran "moltitudine di persone d' ogni stato di tutto il Regno".
La folla dei devoti divenne così numerosa che si rese necessaria la costruzione di un tempio adeguato e l'assegnazione di sacerdoti dediti alle confessioni, che nei giorni di festa erano "non meno di 15". Ben presto la quantità delle offerte votive fu così abbondante che si rese pure necessaria la scelta e la nomina di onesti e oculati "procuratori" che provvedessero all'amministrazione delle elemosine, dei lasciti e dei legati; al decoro del luogo sacro e alla organizzazione delle feste di maggio e di settembre ben presto istituite; all'espletamento dei compiti e delle attività che si connettevano alle cerimonie liturgiche e alle fiere, soprattutto di bestiame, che si svolgevano nei periodi delle feste.
- Il pannello moderno sovrastante l'antico affresco -
Il fervore delle iniziative, il rapido incremento del culto, la celere diffusione della devozione si colgono appieno nelle parole del frate cappuccino padre Giovanni quando orgogliosamente annota che per il gran concorso di popolo attirato dalle innumerevoli grazie e dagli straordinari miracoli concessi dalla sacra Immagine "fu mestiero eligere quattro procuratori populani li più migliori delle mastranze ricchi ed huomini da bene per l'elemosina di messe, di fabrica, circa oglio e bestiame, ed haver cura nel tempo del raccolto mandare per le campagne per fromento ed anche musto in tempo di vendemia, mandare per le città circonvicine per detta cerca, alli quali procuratori si diedero dui sacerdoti delli primi della città per protettori, si elesse il cappellano per la santa messa ogni giorno e per confessare; oltre li estraordinarii vi si mettevano da circa 15
confessori e perchè il peso di detta procura era un puoco fatigoso ogn'anno si eligono altri quattro procuratori per bosciolo, il cappellano e protettori a beneplacito di Monsignor Illustrissimo di Catania; si determinò farsi la festa a 14 settembre giorno dell'esaltazione della Santa Croce ed anche ogn'anno nella terza domenica di Magio si facesse una processione di mortificazione cioè tutti scalzi e coronati di spine e torci accesi con portare il legno della Santa Croce, la Santa Spina della Corona del Signore".
Col suo colorito linguaggio incurante di regole grammaticali, privo di eleganza formale ma pieno di immediatezza, da buon religioso il frate preferisce puntare l'attenzione sugli aspetti devozionali sorti attorno alla scoperta della sacra Immagine ma non lesina di darci notizie che a prima vista appaiono velate del suo tipico trionfalistico fervore ma che poi si mostrano veritiere, come si ha modo di appurare dai documenti notarili rintracciati che confermano il fermento religioso scaturito dalla "invenzione" del Crocifisso.
Grazie anche alla indulgenza plenaria che "d'un subito fecero venire da Roma e remissione di tutti li peccati per tutti quelli fedeli christiani li quali visitavano detta chiesa in detto giorno per anni sette al solito", l'ingenua composizione pittorica tracciata a vivaci colori sulla nuda roccia divenne subito meta di affollate processioni e destinataria oltre che di suppliche e preci anche di offerte di mano d'opera, di denaro, di prodotti agricoli, di bestiame così doviziose che consentirono in breve tempo la costruzione della chiesa. I "procuratori" incaricati dell'amministrazione delle rendite provenienti dai lasciti, costruito il tempio, si dedicarono al suo decoro e abbellimento, all'organizzazione delle feste di maggio e di settembre, quest'ultima più importante per durata e affluenza di popolo e per la fiera connessa, rinomata e frequentatissima per la gran rilevanza economica acquisita.
La celebrazione di una festa "doppia" (di cui oggi rimane in vita con solennità solo quella di settembre) era collegata al culto di latria che la Chiesa riserva alla Santa Croce, tributatole in modo precipuo dalla Domenica di Passione al Venerdì Santo e, in tono più festoso, il 3 maggio, quando se ne ricorda l'Invenzione, ovvero il ritrova mento effettuato da S. Elena nei primi decenni del IV secolo, e il 14 settembre, quando se ne solennizza l'Esaltazione, ovvero la sua esposizione da parte del sacerdote ai fedeli.
Pare che in origine i due eventi si ricordassero contemporaneamente ma dopo che la vera croce ritrovata da S. Elena, sottratta nel 614 d.C. dal re persiano Cosroe II ai cristiani, fu restituita da suo figlio Siroe nel 628 all'imperatore bizantino Eraclio, che la consegnò il 3 maggio al patriarca di Gerusalemme Zaccaria, i due avvenimenti ebbero celebrazioni separate, eseguite per diverso tempo anche a Enna disgiutamente a cura dei "Procuratori" del Santuario.
E anche se l'incarico, a dire del cappuccino padre Giovanni, col tempo si rivelò "un poco fatigoso", essi tuttavia dedicavano particolare cura anche all'apparato festivo nei suoi aspetti liturgici e devozionali, concentrati non solo nei riti sacri ma pure nelle scenografiche processioni, nelle frequentate fiere di maggio e settembre, nelle tumultuose corse "del palio cosiddetto della spada dalli picciotti da corrersi la vigilia di Nostro Signore", di cui rimane un ricordo in tavole dipinte, e nella "cerca" o questua delle offerte, consistenti soprattutto in granaglie, che cominciava tanto tempo prima al suono ritmato di tamburi, eco rumorosamente sonora del cadenzato passo di una fila (rétina) di muli sfarzosamente bardati, e al suono festoso di zampogne vistosamente ornate di rossi drappi e di nastri e nappe multicolori.
Per la festa di Papardura si provvide a portare in processione dalla Chiesa Madre, dove era custodita, l' argentea teca reliquiaria eseguita dall'orafo Scipione Di Blasi per conservare il frammento della Santa Croce che il vicario generale dei cappuccini padre Modesto da Castrogiovanni aveva ottenuto di far avere nel 1581 ai suoi concittadini. L'ostensione della preziosa reliquia, fulcro della festa, era annunciata da ben 20 tamburini che nella settimana precedente percorrevano ogni angolo della città, seguiva la corsa del "palio", che si correva la vigilia, ed era accompagnata, tra canti e suoni, dallo sparo a volte di ben 600 "mascuna", preludio dei conclusivi fantasmagorici "giuochi di fuoco" tanto attesi anche dai forestieri venuti in città per compiere piamente "u viaggiu ó Signuri" oppure semplicemente attirati dalla fiera.
Era doveroso che per la buona riuscita della festa i "procuratori" non risparmiassero attenzioni sapendo che ad essa, al dire di padre Giovanni, "corrono gran moltitudine di popoli dalle città, terre e casali del Regno con grandissima devotione, chi per riverenza del Signore per le grazie ricevute ed altri per domandare grazie".
Da quando nel 1659, anno generalmente indicato dalla tradizione, fu rinvenuta la sacra Immagine del Crocifisso, che una iscrizione nella chiesa riconduce al 1657, al momento in cui scrive padre Giovanni sono passati poco più di cento anni, durante i quali si sono verificati eventi miracolosi innumerevoli che hanno fatto insorgere pie pratiche, tipiche espressioni del tempo, che oggi rivelano aspetti quasi teatrali capaci anche allora di stupire il buon frate che confessa che "non è da lasciare in silenzio quanto fosse stata grande la devotione delli regnicoli, quando venivano al santissimo Crocifisso ed alcuni arrivati nel territorio di questa città, il quale comincia da circa miglia otto, e prima di arrivare alla Città tutti si scalzano e s' incamminano verso di essa, altri arrivati alle porte si battevano in sangue, cosa d'ogni compassione, et precise per quelli che entravano dalla Porta dell'oriente chiamata Porto Salvo, che insino all'occidente vi è più di un miglio e mezzo dove si ritrova il Santissimo Crocifisso, li quali stracchi dal camino e per il sangue si vedevano morti; ed animati giunti nella grotta tutti ripieni di allegrezza si scordavano d'ogni patimento con ottenere quel tanto [elle] bramavano e tutti si confessavano e comunicavano con grandissima devotione".
Il lungo racconto di padre Giovanni contiene e rivela i requisiti tipici connessi alla fondazione di un santuario: l'immancabile alone di leggenda che accompagna il ritrovamento straordinario di un manufatto artistico a soggetto religioso (affresco, quadro, statua...); la narrazione meravigliata della manifestazione del sacro, nucleo della tradizione orale; il ruolo decisivo di personaggi, spesso senza nome, che diventano protagonisti e divulgatori di fatti prodigiosi e mediatori dell'epifania del divino; l'immediata nascita di atti di venerazione che instaurano precise ritualità; lo spontaneo sviluppo del "viaggiu" ovvero pellegrinaggio al luogo considerato sacro perché scenario privilegiato dalla presenza del soprannaturale.
Inoltre il racconto evidenzia una sorta di istanza devozionale di cui si fa interprete una collettività, quella ennese del `600, dove nobili e clero sembrano avere per lo più, almeno all'inizio della vicenda, un ruolo marginale e dove la comunità contadina e il ceto popolare assumono preminenza, imprimendo alla formazione del culto e delle attività ad esso connesse aspetti peculiari mantenuti inalterati nel tempo, come la gestione affidata ai "massari", la prevalenza di derrate e capi di bestiame nella tipologia delle offerte votive, l'utilizzo di elementi ancorati al mondo agreste (muli, pifferi e zampogne, spighe intrecciate ...).
Perfino i miracoli verificatisi e tramandati, al di là dei casi personali, sembrano privilegiare gruppi sociali legati alla terra, più di altri esposti ai danni delle carestie, delle siccità, delle invasioni di cavallette, origine di fame e desolazione, causa di tensioni e contrasti e fonte di epidemie apportatrici di mortalità.
In proposito è degna di ricordo una serie di eventi funesti accaduti nel 1741: dapprima, a giugno, la devastante invasione di cavallette, fermata prodigiosamente ai limiti di Carrangiara; poi, a settembre, nel pieno della festa, la tempesta di grandine, rovinosa per la eccezionale presenza di "chicchi dal peso di sette once"; quindi l'inevitabile carestia.
L'anno appresso, per di più, dal Natale al 30 Novembre del 1743, "non si ebbe la pioggia e nemmeno i venti umidi". E, come prosegue Salvatore Morgana, "le campagne arse dai geli e dal caldo e i popoli assetati soffrirono e languirono
amaramente. Seguì un altro crudo inverno con venti e geli e poscia, dopo scarsi raccolti, si ebbero due anni di nera carestia. In quella occasione nel 1746 si svolse una processione penitenziale così descritta: "Erano tutti a piedi scalzi e sembravano usciti dalle sepolture, i capelli scarmigliati, la corda al collo, piangevano e pregavano".
Ma il Crocifisso Abbandonato accolse misericordioso le suppliche dei suoi devoti, ai quali i "procuratori" cominciarono a distribuire in segno di propiziazione le "collorelle ", retaggio, forse neppure tanto inconsapevole, di remote ritualità legate alla pagana Cerere, divenute da allora insopprimibile elemento caratteristico della festa e quasi irrinunciabile alimento scaramantico, sulla scorta della confortante esperienza che "quell' anno la terra diede tanta abbondanza di grano elle non bastarono i granai a contenerlo e ne fu anche conservato negli oratori delle Confraternite che erano colmi a disposizione di tutti".
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* Tratto da "Il Santuario del SS.Crocifisso di Papardura, fra leggenda e storia, arte e devozione" di Rocco Lombardo,
pubblicato a cura della Deputazione dei Massari del Santuario di Papardura, ed. Fontana 2001.